Angela Consoli
un giorno forse l’ariditĂ prevarrĂ sullo spirito ma noi siamoancora in grado di vedere nominare, un percorso,ruscello, una terra.
Cosa attendiamo? Siamo in attesa di mani, occhi, linguaggi eimmagini estranee, di passaggi, di scoperte e di modi di comunicare stranieri a una terra che non è ancora desolata..luogo.(Casaterra 2004).
E’ il desiderio di incontrare “linguaggi e immagini estranee” che mi porta per laterza volta in Serbia. L’occasione mi è data dal workshop “Le Sources de vieux Serbia” in cui musicisti, scrittori, poeti e pittori didiverse nazionalitĂ animeranno uno spazio comune che fiorisce nell’ambito del Festival delle attivitĂ artistiche di Raska (Belgrado),che si terrĂ dal 22 al 30 luglio 2006, giunto alla sua ottava edizione. Come di consueto, il Festival si svolgerĂ all’interno delsuggestivo monastero di Gradac, voluto nel XIII secolo dalla regina serba ma di origine francese HĂ©lène d’Anjou. Crocevia di etniedifferenti e alle volte contrastanti, la Serbia offre il palcoscenico ideale per una manifestazione che fa del confronto interculturale ilsuo tratto distintivo.
Il mio legame con questa terra e con la sua gente è essenzialmente emozionale. PerchĂ© la Serbia? Non èsemplice rispondere a questa domanda. Ciò che mi lega al popolo serbo e agli artisti che ho conosciuto nelle precedentiesperienze è la voglia di “venire fuori” dall’ isolamento – comunque sia inteso – per condividere, scambiare idee ed esperienze. Ciunisce il desiderio di comunicare con il resto del mondo, di sperimentare questa “terra che non è ancora desolata” malgrado le chiusure e le barriere ad essa imposte nel corso della storia. In particolare, questo festival costituisce una sorta di viaggio allascoperta delle identitĂ specifiche di un popolo e della sua cultura che si fondono nella sinergia di un lavoro corale edinternazionale. In Serbia ho ritrovato immediatamente quella voglia di creare che purtroppo da noi sembra quasi perduta,schiacciata da un consumismo dilagante e dall’ossessione del nome, del personaggio.
Per quanto possa sembrare uncontrosenso, la libertĂ in Serbia si percepisce nell’aria, la si sente addosso e si sente il fermento, il desiderio di rinascere e ricostruire, il pulsare della vita. “Cerco una strada che porti il mio nome”, scrive Izet Sarajlic e la prima volta che sono andata inSerbia, è stato per un progetto ispirato a questo poeta sopravvissuto alla disgregazione di una Sarajevo multietnica, conservataintegra nelle sue parti non solo nel proprio nome e nel proprio sangue ma anche nella propria voce. “Cerco una strada che porti ilmio nome” significa cercare l’immagine di una realtĂ in cui riconoscersi, che ci corrisponda, di cui essere parte; e significa farloripartendo dai suoi elementi essenziali, visti nella loro semplicitĂ disarmante. il suo messaggio che attraversa le frontiere potrebbeessere l’ultima possibilitĂ di uscire dal naufragio del secolo trascorso che ancora si trascina nel martirio delle guerre, e l’unicapossibilitĂ di riprendere il cammino, di riprendere la strada.
Ecco da dove nasce l’entusiasmo che mi porta al Festival di Raska,benchĂ© non abbia pensato ancora al “pezzo” che porterò con me. Infatti, non è la partecipazione “individuale” che interessa; ciòche importa, invece, è la dimensione del lavoro comune portato avanti da una comunitĂ di artisti che vuole soddisfare quella setedi senso globale di cui il popolo serbo è concreta manifestazione. Da un punto di vista squisitamente personale, il mio contributoconsiste nel rinsaldare quel legame che giĂ da diversi anni unisce la Puglia all’altra sponda dell’Adriatico. Quello che vorrei èconsolidare un canale attraverso cui si realizzi una possibilitĂ di scambio, tra due realtĂ che, per quanto vicine sembrano lontanenel tempo e nello spazio, divise e segnate da percorsi storici differenti.
un giorno forse l’ariditĂ prevarrĂ sullo spirito ma noi siamoancora in grado di vedere nominare, un percorso,ruscello, una terra.
Cosa attendiamo? Siamo in attesa di mani, occhi, linguaggi eimmagini estranee, di passaggi, di scoperte e di modi di comunicare stranieri a una terra che non è ancora desolata..luogo.(Casaterra 2004).
E’ il desiderio di incontrare “linguaggi e immagini estranee” che mi porta per laterza volta in Serbia. L’occasione mi è data dal workshop “Le Sources de vieux Serbia” in cui musicisti, scrittori, poeti e pittori didiverse nazionalitĂ animeranno uno spazio comune che fiorisce nell’ambito del Festival delle attivitĂ artistiche di Raska (Belgrado),che si terrĂ dal 22 al 30 luglio 2006, giunto alla sua ottava edizione. Come di consueto, il Festival si svolgerĂ all’interno delsuggestivo monastero di Gradac, voluto nel XIII secolo dalla regina serba ma di origine francese HĂ©lène d’Anjou. Crocevia di etniedifferenti e alle volte contrastanti, la Serbia offre il palcoscenico ideale per una manifestazione che fa del confronto interculturale ilsuo tratto distintivo.
Il mio legame con questa terra e con la sua gente è essenzialmente emozionale. PerchĂ© la Serbia? Non èsemplice rispondere a questa domanda. Ciò che mi lega al popolo serbo e agli artisti che ho conosciuto nelle precedentiesperienze è la voglia di “venire fuori” dall’ isolamento – comunque sia inteso – per condividere, scambiare idee ed esperienze. Ciunisce il desiderio di comunicare con il resto del mondo, di sperimentare questa “terra che non è ancora desolata” malgrado le chiusure e le barriere ad essa imposte nel corso della storia. In particolare, questo festival costituisce una sorta di viaggio allascoperta delle identitĂ specifiche di un popolo e della sua cultura che si fondono nella sinergia di un lavoro corale edinternazionale. In Serbia ho ritrovato immediatamente quella voglia di creare che purtroppo da noi sembra quasi perduta,schiacciata da un consumismo dilagante e dall’ossessione del nome, del personaggio.
Per quanto possa sembrare uncontrosenso, la libertĂ in Serbia si percepisce nell’aria, la si sente addosso e si sente il fermento, il desiderio di rinascere e ricostruire, il pulsare della vita. “Cerco una strada che porti il mio nome”, scrive Izet Sarajlic e la prima volta che sono andata inSerbia, è stato per un progetto ispirato a questo poeta sopravvissuto alla disgregazione di una Sarajevo multietnica, conservataintegra nelle sue parti non solo nel proprio nome e nel proprio sangue ma anche nella propria voce. “Cerco una strada che porti ilmio nome” significa cercare l’immagine di una realtĂ in cui riconoscersi, che ci corrisponda, di cui essere parte; e significa farloripartendo dai suoi elementi essenziali, visti nella loro semplicitĂ disarmante. il suo messaggio che attraversa le frontiere potrebbeessere l’ultima possibilitĂ di uscire dal naufragio del secolo trascorso che ancora si trascina nel martirio delle guerre, e l’unicapossibilitĂ di riprendere il cammino, di riprendere la strada.
Ecco da dove nasce l’entusiasmo che mi porta al Festival di Raska,benchĂ© non abbia pensato ancora al “pezzo” che porterò con me. Infatti, non è la partecipazione “individuale” che interessa; ciòche importa, invece, è la dimensione del lavoro comune portato avanti da una comunitĂ di artisti che vuole soddisfare quella setedi senso globale di cui il popolo serbo è concreta manifestazione. Da un punto di vista squisitamente personale, il mio contributoconsiste nel rinsaldare quel legame che giĂ da diversi anni unisce la Puglia all’altra sponda dell’Adriatico. Quello che vorrei èconsolidare un canale attraverso cui si realizzi una possibilitĂ di scambio, tra due realtĂ che, per quanto vicine sembrano lontanenel tempo e nello spazio, divise e segnate da percorsi storici differenti.
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