Un appello etico non eretico agli intellettuali

di Dante Lepore - casa editrice Ponsinmor




L’appello di Angelo D’Orsi agli intellettuali, affinchĆ© rompano «il silenzio» sul tentativo «genocida-rio» sionista nella guerra a Gaza ĆØ fatto in nome della «veritĆ » e della «giustizia» ed ĆØ rivolto, come spiega nell’art. del 23.01.09 riportato da Sotto le bandiere del marxismo, a coloro che appunto credono nella veritĆ  e nella giustizia (gli intellettuali, i chierici) ed hanno per questo il dovere di non tacere e di «trasmettere e suscitare la volontĆ  di capire e di sapere».


Ma veritĆ  e giustizia da troppo tempo ormai non sono di questo mondo, fatto di classi in lotta e di vincitori e vinti, e bisogna subito rilevare che da quando questi “valori” (da Platone in poi considerati “eterni”, fuori della storia, tanto da essere collocati fuori di questo mondo) sono stati rovesciati e messi in piedi dal marxismo, hanno rivelato il loro contenuto sociale di classe, mandando in frantumi anche il ceto politico e il ruolo dei cosƬ detti intellettuali (i chierici!) come elaboratori e alfieri di tali “valori” e-terni.

A parte questa considerazione, non si puĆ² dire che l’appello di Angelo D’Orsi non vada vicino alla “veritĆ ” sulla natura del conflitto israelo-palestinese e, in parte, sulle radici storiche di esso (sfiorando implicitamente la drammatica questione della “legittimitĆ ” dell’entitĆ  sionista) e persino sull’attuale contesto internazionale in cui questo genocidio si sta consumando.

Dicevo “in parte” perchĆ©, sul ruolo dell'emergente imperialismo USA e, in subordine, dell'URSS nella nascita di Israele (quando approfittarono entrambi del declino del vecchio colonialismo anglo-francese) D’Orsi non spende una parola, che avrebbe segnalato una ragione in piĆ¹ «da capire e spiega-re» da parte degli intellettuali, ossia la natura puramente imperialista di quella che non a caso ĆØ defini-ta una “entitĆ ” a cui mal si attaglia la qualifica di stato-nazione, che anzi ĆØ nata come attentato allo stato-nazione dei nativi, riproponendo nel XXI secolo un problema di liberazione nazionale del popo-lo palestinese, mentre l’Occidente l’affrontĆ² e superĆ² in modo progressivo nell’epopea risorgimentale.

Oggi i rampolli degenerati dei Paesi imperialisti, destri o sinistri, sono accomunati nel rivendicare un “diritto” di esistere a Israele e al massimo un po’ di pelosa pietĆ  per una popolazione a cui questo diritto ĆØ stato conculcato.

Proprio perchĆ© ĆØ uno storico serio e, tra l’altro, nella sua gioventĆ¹, nonviolento capitiniano e gan-dhiano, anche esperto del fenomeno militare, da questo punto di vista Angelo D’Orsi non puĆ² non ve-dere «l’uso politico della Shoa» e un «asse Washington-Tel Aviv» su cui sarebbero «appiattiti» «i go-verni di destra» e dell’«omologo» di Frattini nel governo ombra, on. Fassino, che accrescerebbe «l’indignazione» e l’«avvilimento» per il «tacere altrui» e l’ipocrisia di chi balbetta di «eccesso di le-gittima difesa» da parte israeliana.
A coloro che giustificano l’eccesso di vittime civili come inevitabile per la sovrappopolazione di Gaza, D’Orsi risponde: «come se fosse una colpa dei loro infelicissimi abitanti». E contesta come «di-sinformati e tendenziosi giochi d’equilibrio» quelli che non considerano che qui non si tratta di «un match alla pari» ma di una «asimmetria fra i contendenti» che caratterizzerebbe (ormai parla da pole-mologo) «le new wars del XXI secolo». Insomma una zuffa tra Davide e Golia senza importanza per la posta in gioco. Al diavolo anche Clausewitz. Al diavolo le strategie, i grandi giochi, gli interessi di fondo, le vie del petrolio, le teste di ponte. No. Neppure le guerre civili, alias rivoluzioni, nel XXI se-colo. Solo guerre asimmetriche! Guerra da guerrafondai! Guerre da sonno della ragione. Il rimedio per D’Orsi ĆØ di sedersi al tavolo, trattare (v. dibattito con Furio Colombo su Micromega).

Il termine di guerre asimmetriche, caro a Samuel Huntington, riduce le guerre a guerre «di civil-tĆ », di «culture», «ideologiche» e, di fatto, tra paesi ricchi e paesi poveri. Altro che guerre inter-impe-rialiste e guerre per procura degli imperialismi, care ai vetero leninisti! Un es. di guerra a-simmetrica, sarebbe quella dell’attentato alle torri gemelle…

Per vedere le cose in questo modo, D’Orsi non fa parola per approfondire gli accordi militari (“segreti”!) e forniture di armi, giĆ  contratti dal governo Prodi e reiterati da quello di destra, nĆ© sugli interessi economici italiani nell’area, che vanno da Israele all’Iraq, limitandosi, nell’appello, a col-locarli in ambito europeo accanto agli accordi («pesanti»?) di collaborazione politica e scientifica, facendone un problema di etica nelle relazioni internazionali.

Ma D’Orsi impugna anche la storia per documentare le «colpe» di Israele che renderebbero «nul-le» le sue eventuali «ragioni» (che per concessione non nega), ossia le «ferite storiche costituite dal 1948» (costituzione dello Stato d’Israele e «catastrofe» dei palestinesi) e «dal 1967» (guerra dei sei giorni: annessioni dei territori e conseguenti profughi palestinesi senza speranza), cui si aggiungono le 70 condanne inflitte a Israele dalle «risoluzioni» ONU [nb. 220!] (ossia, aggiungiamo noi, un a-nalogo degli appelli degli intellettuali!). L’ONU, questo fantoccio dalle mozioni inconcludenti, que-sto scatolone vuoto che ha persino condannato certi interventi degli Stati Uniti per destabilizzare tanti regimi in America Latina e altrove!

Qui finisce l’indignato j’accuse dell’intellettuale e storico Angelo D’Orsi e l’appello che ne con-segue ĆØ quello di dirle, anzi gridarle, queste veritĆ  che si ridurrebbero ad «una tremenda riproposi-zione della Storia, in forma rovesciata, [che] vede un popolo perseguitato diventato persecutore».

Ma non ĆØ la prima volta: da quando il pio Enea, fuggito da Troia in fiamme, approdĆ² alle coste del Lazio, dando vita a una genia di feroci conquistatori, altri «perseguitati» ne hanno seguito l’esem-pio, come i Padri pellegrini della Mayflowers, che dettero il via al genocidio dei nativi «a-mericani» e i boeri, che fecero altrettanto nel Sud del continente africano.

Per una ironica proprietĆ  transitiva, quello che D’Orsi chiama «l’uso politico della Shoa» contro cui inveisce dicendo che «ĆØ ora di finirla», ecco che viene usato «in forma rovesciata» proprio quel-lo che lui stesso chiama lo «statuto di vittime» del popolo ebraico.

In altra occasione (su «Liberazione», 04.08.06) disse che bisognava gridare dai tetti «Basta con il ricatto dell’Olocausto». D’Orsi non nega in sostanza questo statuto di vittima dell’entitĆ  sionista, il che farebbe di lui un revisionista e negazionista; nega solo che questo «statuto storico di vittime» (che, giova ripeterlo, egli stesso riconosce, tant’ĆØ che si sente, insieme con l’Europa, vittima del ri-catto) debba avere un uso politico e giustificare un «diritto di fare i carnefici» da parte israeliana.

Nella sua rubrica Cattivi Maestri su «Micromega» del 26 gennaio 1991, in occasione della gior-nata della «memoria», scriveva a proposito della Shoa:

«[…] intesa come il progetto del nazionalsocialismo di giungere a una “soluzione finale” della “questione ebraica”, che perĆ² era integrata in un piĆ¹ vasto disegno di eliminazione fisica di tutti gli elementi “perniciosi”, “deviati”, e cosƬ via».
Sarebbe il caso di essere piĆ¹ chiari in proposito, osservando almeno che i campi di lavoro dell’universo concentrazionario nacquero espressamente per i “comunisti” e i “socialisti”, appartenenti all’etnia, questa sƬ piĆ¹ «perniciosa», come si esprime D’Orsi, quella internazionalista, e via via, e senza un piano preordinato, vi furono vittime anche gli handicappati e i mulatti (categorie «scomparse» dall’oggi al domani) gli zingari, i testimoni di Geova, gli slavi, i greci, oltre agli ebrei e agli omosessuali.

CosƬ lo descrive D’Orsi:

«Fu diverso quell’olocausto, da tutti i precedenti, e finora, fortunatamente, dai successivi, per le sue modalitĆ , la sua scientificitĆ , la sua organizzazione, esemplata sul modello della fabbrica capitalistica. Comprese le tangenti alle SS, da parte di ditte produttori[?] di forni crematori, o di gas Zyclon B [?, Zyklon !](quello che poi fuorusciva dalle “docce”, dove gli internati erano inviati, una volta spogliati di tutto quello che loro rimaneva, dagli abiti ai capelli, tosati e venduti), per ottenere l’appalto. Non si ĆØ mai visto nella storia dell’umanitĆ  qualcosa di simile: un tentativo perfettamente strutturato, secondo modalitĆ  rigide e via via piĆ¹ standardizzate, “perfezionate”, di cancellazione di “categorie” (etniche, religiose, politiche ecc.); e in particolare, naturalmente, di un popolo, quello ebraico.
Colpisce in que-sta Shoa, anche l’assenza di una vera motivazione, al di lĆ  degli slogan che valevano a convincere l’opinione pubblica: gli elementi da eliminare non erano nocivi, da alcun punto di vista, non produce-vano danno alla “nazione germanica”, e fra gli ebrei tedeschi non pochi erano stati fino al ’33-34, ad-dirittura favorevoli non solo a una politica di destra, ma allo stesso hitlerismo. Nel disegno di cancella-re quel popolo, come i Sinti e i Rom, v’era quella che Baumann ha definito la logica del giardiniere: il quale non odia, che so?, le margherite gialle. Decide, senza neppure sapere perchĆ©, che quei fiori vanno estirpati dal suo giardino. (Forse non gli piacciono? Non si armonizzano con gli altri colori?...). E pro-cede: lo fa in modo il piĆ¹ possibile tecnologico, scientificamente organizzato, senza alcun sentimento di odio (o di pena) per quegli innocui fiori. L’eliminazione degli internati nei campi di sterminio fece ri-corso alle piĆ¹ avanzate tecniche operative. Una volta deciso trattarsi di sottoumanitĆ , anzi di “non u-manitĆ ”, tutto diveniva lecito. E ognuno si lavava la coscienza, preventivamente. Si puĆ² provare rimor-so se si schiaccia una zanzara? I campi di concentramento erano diversi dai campi di sterminio: perciĆ² non si capisce lo sdegno davanti al paragone, forte, ma tutt’altro che immotivato, di Gaza come “cam-po di concentramento”: il piĆ¹ grande del mondo, a cielo aperto; ma il campo di concentramento rischia di essere l’anticamera di quello di sterminio. E il sospetto che per tanti israeliani la “soluzione finale” del “problema palestinese” sia la loro scomparsa. O se ne vanno, o li aiutiamo ad andarsene, anche in modo definitivo. La tragedia, come ho giĆ  scritto, di diventare “vittime delle vittime”, per i Palestinesi (cito il grande Edward Said); o, per gli ebrei, di diventare carnefici dopo essere stati vittime».

Come notavamo all’inizio, non esistono veritĆ  universali eterne, ma le uniche veritĆ  sono figlie del tempo e solo in questo senso sono rivoluzionarie, altrimenti sono mezze veritĆ , perchĆ© sull’altra metĆ  tacciono, complici di quel silenzio che ora D’Orsi rimprovera a chi tace e non s’indigna. Ho riportato quasi totalmente il recente brano di D’Orsi su «Micromega» per evidenziare quanto poco antisemita, revisionista e negazionista sia lo storico torinese, a dispetto di chi ingiustamente lo accu-sa di tanto scempio anti-israeliano. Contro queste accuse l’autore si difende rivendicando la sua appar-tenenza alla sinistra e la sua laicitĆ  e vituperando il fatto che a celebrare la liberazione di Aushwitz (liberata dall’Armata Rossa, «comunista»!) sia andato Fini.

D’Orsi forse dimentica, e certamente tace, sul fatto che nel «ricatto olocaustico» (e noi aggiun-giamo nel “mito olocaustico”) ci stanno tutti, da un bel pezzo, a partire dal delfino di Almirante, il pentito Fini cresciuto nel brodo culturale del redattore della rivista «Difesa della razza», a Togliatti, perchĆ© il ricatto olocaustico e il mito che ne sta a fondamento storico e su cui uno storico dovrebbe pronunciarsi e non tacere, non risale al 1948 ma ancor prima della fine della guerra, e, nella teoria e nella pratica, a Theodor Herzl e al “nazionalismo” ebraico e sionismo, ma quel che piĆ¹ lascia per-plessi ĆØ che nell’accorato appello etico di D’Orsi ĆØ lasciato al silenzio ogni ricostruzione strategica di questa disegno sionista che giunge fino alla “Grande Israele” biblica, includente l’attuale Kurdistan iraqueno per il quale stanno giĆ  brigando per operarne lo spopolamento (http://www.waynemadsenreport.com). E dimentica di dire, D’Orsi, altre parti di veritĆ  storica, come quella che la creazione dello Stato di Israele risale ad un gioco di potenze imperaliste, vincitrici del nazismo, comprendenti anche la Russia, “comunista” come lui la chiama, in realtĆ  staliniana, ovvero nazionalcomunista; e dimentica altri tasselli di “revisione” (bipartisan di destra e di sinistra) del “mi-to” dell’olocausto come il “progetto”, mai documentato (e per i negazionisti impugnato) di sterminio e di soluzione finale della questione ebraica, la questione delle funzioni reali dei forni crematori e del-le camere a gas, per tacere della annosa questione del numero degli “sterminati”, in realtĆ  morti per maltrattamenti, condizioni di vita e di lavoro disumane, pestilenza e malattie, come dimostra Paul Rassinier (La menzogna di Ulisse, Graphos, Genova, 1996), partigiano e socialista che nei campi ci visse e non fu certamente un antisemita e nemmeno un collaborazionista, come tanti «amici» degli e-brei della 25 ora.

Ma soprattutto, D’Orsi, come storico e libero ricercatore laico, omette di nominare e di indignarsi contro le leggi della democratica Europa che puniscono chi sparge dubbi sull’olocausto (in Italia, e proprio nel centro sinistra, se ne fece promotore Mastella), i processi e le vessazioni contro storici e ricercatori (valga per tutti, a parte il «caso Faurisson», quello di Serge Thion, uomo della sinistra li-bertaria, giĆ  dipendente del Centre National de la Recherche Scientifique francese, licenziato per le sue ricerche sul revisionismo olocaustico) che hanno solo osato porre in discussione non tanto l’uso ricattatorio dell’olocausto, evidente del resto anche a lui, ma proprio l’esistenza di un “progetto” e di un “fatto” genocida specificamente antiebraico, tutti elementi questi, discussi peraltro anche da emi-nenti scrittori ebraici (tra gli ultimi Norman Finkelstein) e, infine, ma non meno importante, la que-stione delle varie versioni (vere o false?) del Diario di Anna Frank. Se di qualcosa di “preordinato” bisognerebbe parlare, sarebbe, del fatto che a tutt’oggi continua un piano elaborato giĆ  anteriormente al 1942 dal P.W.E. (Psychological Warfare Executive = Servizio per la Direzione Psicologica della Guerra) che prevedeva la diffusione in tutti i Paesi partecipanti alla guerra della tesi che il governo del Reich facesse uccidere in camere a gas milioni di ebrei e di altri gruppi etnici indesiderabili.

ƈ ovvio che, in buona misura, notizie del genere debbano essere compulsate anche in pubblicazioni “negazioniste”, e oggi il negazionismo, attraverso un’ardita equazione, ĆØ sinonimo di antisemitismo. Fatto sta che, quando rischia questa accusa, D’Orsi rivendica la sua fede nella veritĆ  dell’Olocausto, senza fare lo storico, anche solo per contestare la tesi sul mito, indifferente e silente, sottolineiamo, sulle leggi che vietano di contestare con prove storiche il millantato ma mai provato progetto di sterminio. Qualche dubbio potrebbe sorgere solo esaminando il contrasto tra Alfred Rosenberg e gli «ingegneri» della Todt. Altrimenti permane il mito, divenuto tabĆ¹ intoccabile, in cui resta oggi irretito tanto antifasci-smo resistenziale non solo italiano, ma europeo. Ma l’appello di D’Orsi schiva ed elude il problema.

Questo coraggio D’Orsi, lo storico e l’intellettuale, ce l’ha o preferisce che la veritĆ  e la giustizia non sia quella rivoluzionaria, figlia del tempo e delle lotta di classe, ma quella che se ne sta nell’iperuranio platonico? O piĆ¹ semplicemente ha paura dell’accusa di antisemitismo? Lo conferma in Cattivi Maestri su «Micromega» del 19.01.2009: « se ti azzardi a porre sotto accusa le politiche ormai genocidarie di Israele verso i Palestinesi, senza tanti complimenti vieni equiparato a chi nega la Shoa… Insomma, si viene bollati con uno dei piĆ¹ infamanti marchi che la storia ci abbia consegnati: il marchio dell’antise-mitismo». Conosciamo il rischio, piĆ¹ sordidamente materiale, dell’infamia sottesa a questo marchio: in Amerca due studiosi che hanno osato documentare le azioni della lobby ebraica hanno perso la cattedra. Ma per intellettuali seri vale la regola platonica: kalĆ²s o kƬndunos, ĆØ bello il rischio.

Ecco una ricostruzione delle radici della tragedia in Medio Oriente di Paolo Barnard: con piĆ¹ completezza storica, almeno documenta come quello dell’Olocausto era confezionato come un mito ricattatorio giĆ  a monte del 1948, anche se neppure l’autore si esprime sulla veritĆ  storica dell’Olo-causto, http://it.youtube.com/watch?v=5NBZjjj2Kh4.

Faccio questo accostamento per concludere che ormai la discriminante tra chi affronta la questione palestinese da un punto di vista internazionalista, comunista, e chi rientra, al di la della facciata di indi-gnazione etica, nel mito ricattatorio olocaustico, rimane quella tra l’accettazione acritica di questo mito e la rottura netta, la scelta eretica.
D’Orsi non ĆØ un negazionista, tanto meno antisemita, ci mancherebbe! Crede nella «revisione», anima della storiografia, non nel revisionismo programmatico («La Stampa», 18.10.06). D’Orsi ĆØ un pacifista, seguace di Gandhi e Capitini, convinto che «ogni potere politico o sta-tuale nato dalla guerra, e nutritosi di guerra, ĆØ condannato a morire di guerra», forse troppo dimentico del fatto (storico!) che non c’ĆØ alcuno Stato moderno nato dalla bubbola rousseauiana del contratto so-ciale, che non sia invece nato da una guerra, compreso quello italiano, che di guerre ne dovette fare al-meno tre, ma quelli furono tempi eroici.
D’Orsi, al di lĆ  delle apparenze, non ĆØ neppure un radicale: es-sere radicale significa andare alla radice dei problemi per risolverli. E la radice del problema israelo-palestinese non sta nel 1948, ma nel ruolo strategico nell’asse medio orientale dove le potenze imperia-liste vi si contendevano e contendono la via del petrolio.

Post a Comment

Nuova Vecchia