di Giuseppe Gavazza
Nel 1942, al teatro dell'opera di Monaco di Baviera, andò in scena la prima di Capriccio di Richard Strauss una Konversationsstück für Musik (conversazione per musica) nata da un’idea di Stephan Zweig. Zweig, ebreo, aveva felicemente collaborato con Strauss nel 1935, ma Strauss si mise al lavoro su questa opera nel 1939 e dovette redigere da se il proprio libretto. In Capriccio, in un magistrale e vertiginoso gioco di citazioni musicali e letterarie si mette sulla scena musicale il teatro nel teatro riprendendo il tema di “Prima la musica e poi le parole?” opera parodia di Antonio Salieri su libretto di Giovanni Battista Casti: la disputa sul primato tra parole e musica nell’opera lirica.
Capriccio di Strauss é ambientato in un castello in Francia, «al tempo della riforma di Gluck» (come specifica il libretto), nel Settecento razionale e illuminista in cui vissero Salieri e Casti ed anche Goya; il più celebre tra suoi Capricci (ciclo di acqueforti e acquetinte) si intitola: El sueño de la razón produce monstruos: Il sonno della ragione genera mostri. La ragione illuminista si era pesantemente addormentata nella società europea del 1942, ma non nell'arte.
Riprendo, allargo e trasformo il tema della vecchia e celebrata querelle prendendo spunto dall'immagine messa a copertina di Ears Wide Shut, mio primo intervento su TP (TerPress): un primo piano dei tasti bianchi e neri di un pianoforte.
Giorni fa, visitando il Museo della Radio e della Televisione della RAI di Torino (piccolo, prezioso e suscitatore di memorie nostalgiche) l'attenzione è stata chiamata da uno dei primi oggetti esposti: una tastiera musicale sui cui tasti sono riportate lettere, numeri e segni d'interpunzione:
una tastiera alfanumerica per i primi telegrafi che usava, adattandolo, il layer preso a prestito dalla tastiera pianistica.
La musica prima delle parole: eravamo a metà Ottocento e David Edward Hughes, l'inventore del telegrafo stampante, era musicista e si vede. Proprio in quegli anni nasceva Richard Strauss e ancora ai tempi del suo Capriccio, in cui si conversava “per” e “con” la musica, era normale e facile digitare su una tastiera musicale: anche per un umile “telegrafista e nulla più, quello dal cuore urgente” (Giovanni telegrafista, una delle canzoni più belle, parole e musica di Enzo Jannacci) era più intuitivo memorizzare e riprodurre un gesto digitale (nel senso di articolazione delle dita) pensandolo come un arpeggio o una scala melodica piuttosto che come una parola, una frase o una sequenza di numeri.
Pochi giorni dopo, esplorando un software musicale, nuovamente la mia attenzione è stata chiamata dall'immagine di una tastiera: una strana tastiera musicale, in realtà una tastiera alfanumerica di computer adattata all’esecuzione musicale.
Un secolo e mezzo dopo il telegrafo stampante chi fa musica con le tecnologie digitali trova più normale e semplice usare una tastiera alfanumerica concepita per scrivere lettere, numeri e segni di interpunzione, adattata ad eseguire musica: certo per un musicista resta più intuitivo concepire, memorizzare e riprodurre una sequenza di gesti come scala o melodia, su tasti neri e bianchi, ma le tastiere alfanumeriche sono sotto le dita e gli occhi di tutti ormai, sono economiche e disponibili; anch'io sto suonando queste lettere. Le parole prima della musica.
A proposito di due termini usati nelle righe precedenti: digitare e digitale. Oggi digitale è sinonimo di virtuale, astratto, incorporeo, impalpabile, sfuggente ma nasce dalla prima aritmetica, che aveva le dita come hardware; un’aritmetica quanto mai concreta, fisica, prensile, palpabile, tattile, corporea.
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