Testo e foto: Mauro Villone (consulenza Lidia Urani e Renato Chiera)
Fotoreportage dall’inferno di cracolandia
Cracolandia è il nome con il quale, in Brasile, hanno
designato le zone urbane, per lo più aree periferiche o abbandonate, dove si
radunano i disperati dipendenti dal crack. Una droga micidiale che si presenta
come una pietruzza. La chiamano “a pedra maldida”, non lascia scampo. Per
realizzare questo reportage ci siamo avventurati nell’Avenida Brasil, Zona
Norte di Rio, al seguito di Padre Renato, un prete di Mondovì, che da 35 anni è
una delle pochissime persone che riesce a strappare alla droga e alla strada
giovani e bambini. Insieme ai volontari una volta la settimana penetrano nel
cuore di cracolandia cercando di dare aiuto con cibi e bevande, ma soprattutto
con la presenza e l’ascolto. Le foto mostrano persone che vivono con un’unica
ossessione: procurarsi una dose. Vivono così, in Brasile, centinaia di migliaia
di persone, ormai condannate. Non esistono programmi di recupero, se non la
reclusione forzata in centri di accoglienza che in realtà sono campi di concentramento
invivibili. Ma il crack è solo una delle facce di un degrado generalizzato che
arriva da molto lontano, legato alle favelas al traffico, ma soprattutto alla
miseria e all’indifferenza. Nessuno sa più cosa fare. Uno dei bambini ritratti
è morto investito da un auto mentre sfuggiva dalla polizia, pochi giorni dopo la
nostra missione fotografica.
Mauro Villone
“Quello che uccide le persone non sono la droga, il
cancro, l’aids. Si muore sempre e soltanto, per mancanza d’amore” (Wanda V., poco prima di morire di cancro)
Per procurarsi questa merda già diversi anni fa iniziarono a
formarsi bande di crackeros che si riunivano in una zona semi-abbandonata del
centro di San Paolo, la quale ben presto battezzarono col nome di Cracolandia.
Questa abitudine si sparse per tutta San Paolo e poi in altre città brasiliane,
inclusa Rio, dove oggi le cracolandie sono circa 11. All’inizio sembravano
comode per tutti. Il governo, tramite il braccio armato della polizia le teneva
sott’occhio, i crackeros si sentivano più protetti in gruppo e potevano
approvvigionarsi della droga comodamente, visto che anche i corrieri dei
narcotrafficanti potevano arrivare qui e rifornire tutti con un unico viaggio.
Ma recentemente le forze di polizia si sono accorte che i
gruppi stanno crescendo a dismisura e acquistano un certo potere, se non altro
di presidio del territorio, così hanno cominciato a disperderli. Si trovano
gruppi più piccoli (di 100-200 persone, anziché 500) ai margini delle grandi
arterie di traffico, sotto i viadotti, ai margini delle favelas della zona
Norte di Rio, spesso circondati dalla spazzatura, che per loro è anche fonte di
piccoli guadagni. Talvolta nella stramerda riescono a recuperare qualcosa da
mangiare o da bere o qualche pezzo o del ferro da rivendere per pochi
spiccioli.
Ai margini delle strade, dove passano giorni e notti strafatti
ad aspettare la morte può capitare che il destino scelga di porre fine più
rapidamente alla loro agonia grazie a un incidente stradale. Qui sono
controllati dalla polizia come animali, in modo che non possano andare a
disturbare le zone più ricche di Rio come la zona sud. Ma la polizia è il male
minore, molto peggio la Milicia (si legge milisia) e gli Squadroni della Morte.
Cominciamo da questi ultimi. Si tratta di bande armate di commercianti che,
stufi dei continui furti e della microdelinquenza si sono organizzati per
sterminare sistematicamente bambini e ragazzi delinquenti e/o crackeros.
Compilano vere e proprie liste di ragazzini che poi cercano attentamente e
fanno fuori con una pallottola in fronte: è il loro marchio. Pensano, come lo
pensa la polizia, che questo ormai sia l’unico sistema concreto per portare un
minimo di tranquillità nella comunità.
La Milicia è invece un’organizzazione di professionisti
della violenza e delle armi provenienti da esercito, polizia, pompieri, ex o in
servizio, collusi o meno con i narcotrafficanti, particolarmente esaltati e
feroci che si sono organizzati inizialmente per l’autodifesa delle loro
comunità e delle loro famiglie. Oggi, dopo anni di onorato servizio, è diventata
una sorta di mafia che guadagna con il pizzo che pretende dalle persone che
“difende” oppure con il monopolio su forniture di servizi, come per esempio le
bombole del gas o persino le connessioni TV via cavo. Talvolta i miliziani
pretendono il pedaggio per lasciare entrare in zone particolarmente sensibili.
Una sorta di polizia clandestina in qualche modo tollerata dai governi locali e
federale, ma anche dalla popolazione.
Questo è il panorama. Come ho appreso queste cose? Vivendo
in Brasile e parlando con gente di favela e della zona Norte e poliziotti, ma
soprattutto con Padre Renato, del quale ho già scritto e con il quale stiamo
(io e Lidia Urani) intensificando la collaborazione nell’inferno della Zona
Norte di Rio, per informare su cosa sta realmente accadendo. Lo riteniamo
importante per due ragioni. Il Brasile, come qualsiasi altro paese in via di
sviluppo, può rappresentare una cartina da tornasole di tutto il pianeta.
Mentre il degrado mostruoso che interessa larghe fasce di popolazione può
risultar inaccettabile anche da chi non sperimenta direttamente queste
situazioni. Si tratta di palese violazione dei diritti umani.
Da diversi mesi progettavo un reportage fotografico in una
cracolandia. Il problema è che si tratta di aree pericolose nelle quali
accedere, perché si può essere aggrediti dagli stessi crackeros (che in realtà
qui chiamano cracudos e che d’ora in avanti chiamerò così), dalla polizia, dai
traficantes, dalla milicia o dagli squadroni della morte. Oppure può capitare,
come accade spesso a Rio, di essere raggiunti da una “bala perdida”, una
pallottola vagante. Le sparatorie, quando ci sono, sono feroci e violente.
Occorre tassativamente essere accompagnati da qualcuno che sappia il fatto suo
e che conosca l’ambiente.
In un primo tempo abbiamo tentato di farci accompagnare da poliziotti
in una cittadina fuori Rio. Ma nella cracolandia locale la sera prima in cui
era stata programmata la nostra missione avevano ammazzato due persone.
Successivamente venne il momento della campagna elettorale e ci sconsigliarono,
con velate minacce, di andare a sollevare polveroni fastidiosi proprio in quel
momento lì. Ma in qualsiasi altro momento c’erano altre scuse perché sia i
governi locali che quello federale, sebbene in Brasile tutti sappiano benissimo
cosa accade, preferiscono non parlarne troppo. A Rio tutti avevano paura ad
accompagnarci, sia favelados che tassisti che poliziotti.
Ancora una volta abbiamo risolto il problema dell’accesso a
un’area pericolosissima con Padre Renato. Di recente ho scoperto che, dopo 35
anni di aiuto ai bambini e ragazzi disperati della zona nord di Rio (di cui ne
ha salvati decine di migliaia), di solito tutti i mercoledì passa la giornata
in una delle tante cracolandie, seguito e aiutato da volontari, di solito
italiani, brasiliani o tedeschi, ma talvolta provenienti anche da altri paesi.
Credevo ci andasse solo ogni tanto, invece fanno un lavoro sistematico da anni.
Se non ci fossero persone così, e non è troppo importante se sono preti, laici,
monaci buddisti, comunisti, o madri di famiglia, questi ragazzi sarebbero
definitivamente abbandonati a se stessi e al loro inferno, senza più speranze.
Si aggrappano a chi decide, senza alcun motivo, di dargli un po’ d’amore. Così
abbiamo seguito il suo gruppo. È stata una sorpresa, giunti sul posto, scoprire
che Pé Renato (come lo chiamano qui) indossava, sopra jeans e maglietta, una
tunica bianca da prete che gli conferiva autorevolezza. I preparativi sono
avvenuti in un capannone, avamposto di volontari, in un’area della zona nord di
Rio devastata dalla delinquenza e sommersa dai rifiuti. Ci siamo poi
avventurati in 5, insieme a Pé Renato, per la strada. Insieme a noi due c’era
una volontaria dell’alto commissariato ONU per i diritti umani, un funzionario
della Casa do Menor e un altro ragazzo che è l’unico ex cracudo che abbia mai
incontrato, strappatosi dal crack con l’aiuto di Renato.
Abbiamo passato mezza giornata, dalle 10 alle 15, con 40
gradi di temperatura, in mezzo a un inferno costituito da viadotti, traffico,
cemento, asfalto, rifiuti di ogni genere e zombie perennemente indaffarati
nella ricerca di una dose o dei soldi per procurarsela, e poi dei 30 secondi di
tranquillità per fumarsela. Tutto alla luce del sole, nell’indifferenza
generale e sotto lo sguardo vigile della polizia. Pé Renato si fermava a parlare
con tutti, uno per uno, mentre i volontari distribuivano biscotti e bevande.
Uno dei rischi che corrono i cracudos è quello di morire disidratati a causa
dell’assenza di stimoli tra i quali quello della sete.
Quella che il mondo considera spazzatura umana Renato li
avvicina come persone bisognose soprattutto di affetto. Disperati all’ultimo
stadio che si sarebbero attaccati a qualsiasi cosa per rimediare gli spiccioli
per una dose, parlavano volentieri con chi si interessava a loro, anche solo
per pochi minuti. Più di una volta – mi raccontava Renato – ragazze e ragazzi
mi hanno chiesto con diffidenza perché li trattavo come esseri umani. “Eu sou
lixo”, “io sono spazzatura, nessuno…nessuno mi ha mai parlato come a una
persona”. La maggior parte delle persone che si trovano a vagare come zombie in
questo inferno sono bei ragazzi e belle ragazze di 25, 35 anni. Ma la maggior
parte di loro ha un ciuccio da neonato appeso collo. Succhiano il ciuccio, di
notte per riuscire ad addormentarsi in quello schifo, per la strada in mezzo a
i rifiuti e agli escrementi. Li abbiamo trovati al mattino che dormivano nello
schifo in posizione fetale. Alcuni hanno un bambolotto o un orsacchiotto che
stringono continuamente al petto. Più sconvolgente ancora la presenza di bambini,
anche piccoli, di 6 o 7 anni, ma tossici come tutti gli altri e ancora più
schizzati degli altri nella ricerca di una dose. Dei piccoli, mostruosi adulti,
costretti a sopravvivere in un inferno e a cercare in continuazione, per tutto
il giorno, l’anestetico che per pochi minuti cancella l’orrore. I bambini sono
facile preda di pedofili e maniaci. Secondo fonti governative (quindi
probabilmente la realtà è ancora peggio) in Brasile spariscono 60.000 bambini
l’anni, 140 al giorno. la maggior parte di essi sono uccisi dopo essere stati
stuprati. Alcuni dormivano tra gli escrementi e i rifiuti, altri tra questi
rifiuti cercavano qualcosa che potesse essere utile o da rivendere per pochi
centesimi. Dopo diverse ore passate sul posto eravamo circondati da questi
disperati ai quali davamo da bere e da mangiare. Padre Renato li abbracciava
tutti, uno per uno e li benediceva con l’acqua contenuta in un bottiglietta da
escursionisti. Ho già detto che non sono cattolico, ma quell’atto simbolico di
un essere umano nei confronti di un altro essere umano mi toccava
profondamente. Alcuni avevano tatuato sul corpo “deus è fiel”, dio è fedele. Ci
sorridevano e parlavano volentieri. Quelli che sembravano a tutti persone
pericolose da avvicinare, puzzolenti e mostruose ora ci parevano per un attimo
come angeli caduti, bambini bisognosi di affetto. Esattamente come tutti noi. E
mentre tutti sogniamo amore, una casa, una famiglia, proprio tutti, talvolta,
ci troviamo a vagare come zombie nelle nostre piccole sconfitte.
Un transessuale che doveva essere stato molto bello, ma con
pochi denti marci si ferma a parlare cordialmente con Padre Renato. Un
drappello di poliziotti ci seguiva. Pé Renato a un certo punto ha affrontato la
polizia: “Credete che serva a qualcosa quello che fate con questi ragazzi?”.
“No, ma è quello che ci dicono di fare” – risponde una sbirra che sembrava
abbastanza ragionevole. Devono controllarli perché non si radunino in gruppi
troppo grandi, né che si spostino con troppa evidenza nella zona sud. Se si va
avanti così nel 2016, quando ci saranno le Olimpiadi, il governo sarà costretto
a creare un cordone militare corazzato per isolare la zona sud dalla zona nord
ed evitare così che milioni di visitatori appassionati di sport e viaggi si
scontrino con gli zombie. Sono 2 milioni in tutto il Brasile, oltre 5000 solo a
Rio.
Unica alternativa la deportazione di questa spazzatura umana
all’interno di quelli che loro chiamano “centri di recupero” che non sono altro
che infernali campi di concentramento sotto il sole. Padre Renato ha chiesto
agli sbirri se loro lascerebbero i loro figli andare in uno di questi campi
infernali, sommersi dai rifiuti. La sensazione che si ha è che il governo speri
che questi poveracci si facciano fuori da soli al più presto. Come spiegare
altrimenti l’assenza di strategie sociali e il lassez-fair nei confronti della
Milicia e degli Squadroni della Morte? In ogni caso è evidente che, per lo
meno, ormai la situazione è diventata di difficile soluzione e nessuno sa più
esattamente cosa fare. L’unica maniera per recuperare questi ragazzi e questi
bambini sarebbe quella di fare come fa Padre Renato, parlare con tutti, uno per
uno, capire le loro esigenze, amarli e cercare di aiutarli a uscire dalla
dipendenza chimica. Ma d’altra parte ogni giorno decine di persone diventano
zombie per la malaugurata idea, sfortuna o chiamatela come volete, di provare
il crack per sfuggire anche solo per pochi minuti alla mancanza d’amore,
all’abbandono, agli stupri, alle violenze, alla miseria materiale e psicologica
che devono o hanno dovuto subire. Ci vorrebbe troppo amore, molto più di quello
a cui ormai troppa gente si è abituata.
Molti dei bambini cracudos nascono già assuefatti da
genitori tossici. Una quantità enorme di bambini viene abbandonata nei rifiuti
o per la strada. Fra le cracude è pieno di belle ragazze (per lo meno finché
non sono ormai devastate dalla droga) che vengono prese di mira da puttanieri
più o meno ricchi, talvolta a loro volta tossici, che se le scopano in una
strada fetida e le riabbandonano incinte. Molte delle ragazze che abbiamo
incontrato sono al 6° o 7° mese di gravidanza. Padre Renato ci spiega che, con
l’uso del crack, si stacca la placenta e non si accorgono nemmeno della
fuoruscita del feto, per lo meno non di più che come se avessero defecato. Li
mettono poi in un sacchetto di plastica e li abbandonano nella spazzatura.
Spesso le ragazze sono violentate proprio dai narcos, anche se già incinte, in
cambio di poche dosi di veleno. Spesso Renato, con il suo staff ha salvato
bambini e neonati rinvenuti nella spazzatura. Li ricoverano nelle case-famiglia
della Casa do Menor, accuditi da volontarie che chiamano “Mamme Sociali”.
Tra le ragazze incinte una molto carina, Juliana, si ferma a
parlare più volentieri di altri. Abbraccia Renato e si mette a piangere.
Aspetta una bambina che chiamerà Alice, ed è preoccupata. Si riesce a
convincerla a venire con noi per portarla in una delle case famiglia per
partorire, darle assistenza, tentare di strapparla al veleno. Ci segue al
capannone, piangendo abbracciata a Renato e continuando a raccontare della sua
storia e del suo ragazzo, tossico anche lui e di cui, nonostante la picchiasse,
si diceva innamorata.
Molti dei ragazzi-zombie vengono fatti fuori anche a mucchi.
Se sfuggono alla morte violenta, sono feriti dalla ferocia della Milicia, della
Polizia o dei trafficanti. Si tratta di persone in gravissime difficoltà, anche
se senza dubbio con le loro responsabilità, che vengono trattati come bestie da
macello e che invece, secondo la filosofia del gruppo di cui ora anche noi
facciamo parte, avrebbero bisogno solo di Presenza. Come chiunque altro.
Vogliamo fermarci un attimo per valutare cosa davvero stiamo facendo? Chi pensa
di stare bene rispetto a questi disperati, probabilmente potrebbe stare ancora
meglio se, invece di nascondere la testa sotto la sabbia o girarsi dall’altra
parte, si fermasse a pensare che il mondo è uno solo e così pure l’armonia e
l’equilibrio non possono prescindere da tutto questo. Forse sarebbe ora di
uscire dall’era del sembrare per entrare in quella dell’essere?
Uno di quelli che abbiamo incontrato è senza le braccia e
con una gamba in cancrena perché è stato buttato giù da un treno. Rubava. Altri
mostrano ferite di arma da fuoco in pancia e negli arti o nelle mani. Molti
sono senza denti, marciti per il veleno, o per le manganellate della Milicia. E
tutto questo sul fronte di Rio, ma non si creda che San Paolo, Delhi, Chicago,
Parigi, New York o molte altre città, comprese quelle italiane con i loro
tossic-park se la passino molto meglio. Non si tratta di questioni di ordine
pubblico o circoscritte. Si tratta di un disagio profondo dovuto a una endemica
e profonda mancanza d’amore che non riguarda affatto solo gli slum e le favelas
o le banlieu, bensì tutta la società nel suo insieme. Intanto l’arrogante
Presidenta Dilma, troppo occupata a lucidare vetrine per Mondiali e Olimpiadi,
spiega che “i problemi sono risolti” e che ora possiamo pensare alla crescita.
Quella crescita fatta di sterminio della natura, di edilizia mostruosa che
produce periferie senza capo né coda, di consumi selvaggi e conseguente produzione
di rifiuti, di lavori alienanti. La stessa crescita che ossessiona tanto il
povero Monti e gli altri politici europei.
Mi viene da parafrasare, con una piccola modifica, il grande
Primo Levi, sperando di non apparire irriverente: “Se questo è l’uomo…”
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