di Roberto Tortora
Di un bel rosso fuoco, di un bel rosso sangue… La copertina di questo libro di poesie attira e intimorisce, come accade se ci accostiamo ai cromatismi estremi. A prolungare l’indugio contribuisce il titolo, Papaveri perversi. Ma la prima sillaba dell’aggettivo è sbiadita rispetto alle altre lettere, sembra scolorita. Solo una distrazione del tipografo?
All’interno trovo conferma: quel “per” è di un colore diverso. E allora può assumere una funzione finale: Papaveri “per” farne versi, cioè i papaveri come oggetto, come tema principale dei versi. Oppure quel “per” ha valore sostitutivo: i papaveri al posto dei versi (un po’ come “prendere lucciole per lanterne”…). E poi c’è l’aggettivo completo: perversi, con il “per” che è parte integrante della parola. E la prima cosa a cui rimanda quell’aggettivo è una dimensione di ordine morale, in altri termini i papaveri perversi sarebbero i fiori del male, i fiori che mostrano inclinazioni contrarie a ciò che è lecito e che è comunemente accettato come buono.
Ma delle tre possibili accezioni, quest’ultima si rivela, nel corso della lettura, la meno convincente, sebbene sia stata quella che per prima si è imposta, quasi per inerzia semantica, alla mente del lettore. In quel perversi si annida certo un’inclinazione divergente rispetto alla via maestra, ma non tanto – o per nulla – di ordine morale, quanto invece di ordine gnoseologico, creativo.
I papaveri allora potrebbero essere sì, l’oggetto, il tema principale di questi testi, con tutto il loro portato simbolico ed evocativo, ma sono soprattutto l’esca che avvia, che mette in moto la ricerca poetica.
Domenico Adriano si muove con la grazia di un funambolo lungo le contraddizioni che tramano il mestiere del poeta: prima tra tutte, la volontà di dire ciò che non si può dire. Esplorate, ed esaurite, le possibilità della ragione che tutto squadra ma che non muove e non commuove, resta aperta la strada dell’irragionevole, inclinazione perversa appunto, cioè divergente rispetto alla presunta superiorità del raziocinio. Ma come percorrere quella strada? Come avviarsi per sentieri che non si sa dove portino e con quali rischi? Irragionevole, in questo caso, è il fiducioso abbandono all’estro linguistico e formale che qui si configura come una prodigiosa trottola, un congegno semplice e perfetto che, una volta avviato, può dare il capogiro e può stregare.
Per una strana e incontrollabile associazione mentale, più di una volta – leggendo e rileggendo questi testi – mi sono figurato Domenico Adriano vestito di bianco, con un copricapo a forma di cono tronco, le braccia allargate, il capo leggermente inclinato all’indietro per volgere gli occhi chiusi al cielo, semiaddormentato in una danza vorticosa che lentamente lo conduce alle soglie dell’estasi: insomma, me lo sono figurato un po’ come un danzatore derviscio, intento ad allontanarsi dalle coordinate spazio-temporali che, ora e qui, ci tengono incatenati alle nostre miserie. L’ho visto vorticare su se stesso, leggero e smemorato e quasi sempre appagato, come se lì, in quella dimensione adesso attinta avesse visto cose, avesse riassaporato visioni e godimenti che sembravano cristallizzati per sempre sotto il peso dell’intelletto. Solo che il poeta non è un danzatore. Perlomeno, non danza con il corpo. Dispone di parole, di suoni, di versi. Se del caso, perfino di formule magiche… Allora me lo sono figurato, Domenico Adriano, davanti al foglio bianco e con la penna tra le mani, intento a recitare un mantra, il suo mantra: “papaveri papaveri papaveri…”
Un funambolo, si diceva, che graziosamente incede sull’orlo delle contraddizioni. Si pensi al secondo testo della raccolta : Dunque avviene ancora oggi di vivere/ il fuoco. Tu lo sai, cammini e sembri/ stare ferma, nascono/ da te campi di grano e anche deserti// al culmine del giorno. Lume dopo/lume potessi avere per narrarti/e poi sarebbe lieve morire/il minimo cuore di una lucciola.
Qui la bellezza si manifesta in una sorta di antinomia: l’incedere della donna amata è un movimento statico, moto immoto, ben più di un ossimoro, un paradosso che è perfino difficile collocare (nella realtà o nel cuore dell’amante?). E poi, è una bellezza travolgente che genera metafore vaste e abbaglianti, distese di spighe o di sabbia che rifrangono e moltiplicano all’infinito la potenza del giorno fino a farne l’apoteosi della luce. Eppure, per descrivere tanta bellezza, tanta luminosità, il poeta chiede di munirsi del minuscolo lumino di una lucciola. In questo, fedele all’assunto contenuto nel testo iniziale, vera dichiarazione di poetica, che insiste sull’operazione di limatura incessante e necessaria, come unica via per carpire la Bellezza. Contraddizioni, si diceva, ancora: perché il poeta vede meglio quando è cieco, quando l’estasi creativa finalmente dilaga e spegne le acuminate e pretenziose facoltà raziocinanti. Allora, in quello stato di grazia, si colgono e raccolgono gli attributi della Bellezza: eleganza, semplicità, leggerezza, luce.
Che però, a guardare bene, non sono solo caratteri estetici, ma anche percorsi del pensiero, modalità di approccio alla vita; in specie, quelle di getto preferite dai bambini, le cui attitudini conoscitive non sono ancora viziate da gabbie raziocinanti, non ancora appesantite da rigide e prefissate consequenzialità. Ai bambini, perciò, spetta il privilegio di una spontanea partecipazione alla Natura (alla Verità?) grazie ad una formula magica che gli adulti non sanno più pronunciare: La veste e il corpo leggeri di quando/eri bambina e tra i cardi entravi/con le parole magiche”lucciola/ lucciola vieni da me…”
Così, con un’esplicita dichiarazione di poetica e un’implicita indicazione di metodo, comincia l’estasi creativa di Domenico Adriano, che come un derviscio in cerca della comunione mistica con il tutto, ripercorre le tappe di un’esistenza partendo dallo stadio magico e incorrotto dell’infanzia con i suoi spazi vasti e le sue fondanti scoperte. E lì ci sembra di avvertire l’impeto, il vigore scalpitante delle ginocchia di un bambino che esce di casa e corre alla campagna a cercare il respiro dei cieli azzurri e l’afflato col mondo degli insetti e dei fiori conturbanti. Lo stesso bambino che dopo, appena un po’ cresciuto, non sa sottrarsi all’imprudente, alla provvidenziale predisposizione a correre tutti i rischi del mondo: Nell’orrido nell’oro del torrente/si è lanciato per provare le sue ali. Qui i papaveri hanno un potere salvifico, protettivo, sono invocati come numi tutelari, efficaci ed efficienti custodi dell’integrità della vita, perlomeno di quella infantile. Nel settimo, bellissimo componimento, percorso di formazione in miniatura, nell’arco di sole cinque quartine si consuma l’esperienza della fuga; il bambino è sopravvissuto alle insidie del mondo ed è tornato con tutto il suo candore e la sua innocenza. Notevole la chiusa: Compagni miei nell’arcobaleno/è giunto fin qui a piedi quel bambino./Eternità di pianura e di monte,/odora di panni torti alla fonte. Il candore dell’infanzia è proiettato sopra lande abbaglianti, contro la forza delle montagne, contro lo scenario eterno del Tempo, ma al tempo stesso è “localizzato” nell’immagine e nell’odore dell’acqua, nei colori e nei sapori trasparenti e buoni di quelle mani di mamma che hanno lavato i panni del figlio sulla pietra del fontanile.
Ruota il derviscio, chiude gli occhi il poeta, vorticano le parole e la poesia trova la sua strada oltre la ragione, in un amore assoluto estremo naturale/cui non pensava il pensier mio. Unica costante, in questo vorticoso moto creativo che tutto avvolge e travolge, è la presenza dei papaveri, cui di nuovo viene assegnato un potere salvifico. Il poeta vuole essere rapito nel regno del Desiderio assoluto, ma al contempo cerca un appiglio per ancorarsi alla vita, alla proda sicura: chiede di essere condotto per mano, di essere salvato, ma anche di essere trafitto nel suo corpo infiammato. In questa stagione dell’esistenza - ma forse è sempre così - la trasgressione è la libertà ed essa produce con uguale forza magnetica la duplice pulsione vero l’ignoto e verso il già noto.
Ancora le contraddizioni. Ora, però, a vincere è il desiderio di perdizione: desiderio di smarrirsi nel vortice del desiderio, di evadere, di sfondare il recinto del giardino come suprema infrazione, prima e originaria rottura del divieto, primo e indispensabile atto di libertà: siete/ voi il mio desiderio o miei spiriti/dell’aria, miei fiori amanti, animo/prendetemi forza trapassatemi//precipitosi, l’infiammato corpo.
Il meccanismo non si ferma più: la trottola gira, gira la giostra della vita.
E porta con sé e spande intorno la potenza dell’eros e le sue gioie. Ma i papaveri? Presenti. Sempre presenti. Come un mantra, si diceva, come una costante iconica, o come formula verbale che apre e discopre mondi incogniti, che sgrana le stagioni e il passaggio del Tempo: Per dove vagolarono in inverno/nel bianco della neve i pettirossi/ora voi fiammeggiate tutt’intorno/o papaveri miei lungo i fossi.
Passaggio del tempo che si manifesta come coscienza dell’effimero: non tutto sarà sempre così: cantano le cicale ai miei occhi/per il tempo che arde a noi concesso. Le cicale stanno lì a ricordarci come tutto passa e quanto sia piacevole tuffarsi nella luce finché rimane accesa. Perfino nell’inconsapevole generosità dei fanciulli fa capolino il presagio del malessere che ci attende, il presentimento che lo spontaneo abbandono all’ebbrezza della vita ad un tratto avrà fine: O papaveri musici, silenziose/forse non più sentirò ali di angeli.
E non a caso in questo incessante vortice, in questa spirale del tempo e dei ricordi, i papaveri fanno capolino con nuovi e più inquietanti attributi: O miei papaveri strappati al sole,/suoi petali di fuoco, cari demoni. E ancora: papaveri papaveri crudeli/i vostri cuori quanto sono neri. Qualcosa sta mutando. Forse incalzano gli anni, aumentano le tensioni, sconfitte e delusioni si affacciano al risveglio.
Man mano che si procede nella lettura di questi testi, affiora più evidente il legame tra i Papaveri e la Poesia. Da un lato l’essenza e il significato dei papaveri (Bellezza, Leggerezza, Sensualità, Amore e Morte, Onnipresenza, Caducità,…); dall’altro il difficile sforzo di dire, di trasformare in parole il magma che noi siamo e in cui viviamo: ora a voi somiglio/e il vostro fuoco per le mie parole/vorrei perché si aprissero da sole. E ancora: papaveri papaveri al risveglio/come siete freschi a voi mi appiglio./Ma non ho parole non ho parole,/solo le vostre odorano di sole. Tant’è vero che quando i papaveri finiscono in polvere, le parole del poeta sono insufficienti a dire. Dev’essere quella fase di scoramento che assale il poeta dinanzi all’incommensurabilità, all’impossibilità, del compito. Folle progetto, quello del poeta, che tenta di dire l’indicibile: e allora riaffiora la tentazione di scambiarsi il ruolo e gli strumenti col pittore, il quale – forse – dispone di superfici e segni e toni più ampi e finalmente dispone dei colori, che tutto dicono e tutto coprono:O miei papaveri finiti in polvere,/ora che le parole sono povere/il poeta vorrebbe farsi pittore/sciogliere il suo lutto in puro colore.
Ma anche questa è solo una fase, destinata a scorrere e trascorrere nella centrifuga dell’esistenza. E ritrova il suo mestiere il poeta, a patto che sappia farsi fanciullo sulle orme di una bimba: O rossi papaveri che la mia bambina/scoprì su uno scoglio al grido bianco/di un cigno: siete spuntati una mattina/come il sole dal becco di un uccello.
Un vortice, questo Papaveri perversi. Una spirale che stende e spande temi, li lascia, li ritrova, li modifica per variazione: l’incanto dell’infanzia, la curiosità giovanile, l’accensione dell’eros, la pulsione ulisside, la seduzione del divieto, la tentazione della resa, il rinnovato vigore nella paternità… E se, da un lato, l’invariabile predilezione per la quartina tradisce un bisogno di ancorarsi alle solide e nobili forme della tradizione, dall’altro l’esplorazione delle forme e dei suoni procede col gusto ludico di apparenti nonsense. In più di un testo l’occorrenza delle rime, il vasto campionario di paronomasie, ma soprattutto il ritmo degli accenti richiamano un verseggiare che è solo a un passo dal limerick, o dalla filastrocca, specchio incantato dello stupore infantile, nel quale può capitare che anche gli adulti ritrovino d’un tratto la traccia autentica della bellezza – semplicità, eleganza, leggerezza, luce - che temevano perduta per sempre:
Papaveri accorrete e con il drago,
se ne va un bambino per il tetto.
Papaveri papaveri vi prego
portatelo con voi insieme al gatto.
Amici miei poveri e solari,
è volato sul più alto dei rami.
O papaveri fate che si ami,
che non si perda per gioco nei mari.
Domenico Adriano, Papaveri perversi, con sei disegni di Giuseppe Salvatori, Il Labirinto, Roma, 2008, pagine 40, Euro 8,00.
Di un bel rosso fuoco, di un bel rosso sangue… La copertina di questo libro di poesie attira e intimorisce, come accade se ci accostiamo ai cromatismi estremi. A prolungare l’indugio contribuisce il titolo, Papaveri perversi. Ma la prima sillaba dell’aggettivo è sbiadita rispetto alle altre lettere, sembra scolorita. Solo una distrazione del tipografo?
All’interno trovo conferma: quel “per” è di un colore diverso. E allora può assumere una funzione finale: Papaveri “per” farne versi, cioè i papaveri come oggetto, come tema principale dei versi. Oppure quel “per” ha valore sostitutivo: i papaveri al posto dei versi (un po’ come “prendere lucciole per lanterne”…). E poi c’è l’aggettivo completo: perversi, con il “per” che è parte integrante della parola. E la prima cosa a cui rimanda quell’aggettivo è una dimensione di ordine morale, in altri termini i papaveri perversi sarebbero i fiori del male, i fiori che mostrano inclinazioni contrarie a ciò che è lecito e che è comunemente accettato come buono.
Ma delle tre possibili accezioni, quest’ultima si rivela, nel corso della lettura, la meno convincente, sebbene sia stata quella che per prima si è imposta, quasi per inerzia semantica, alla mente del lettore. In quel perversi si annida certo un’inclinazione divergente rispetto alla via maestra, ma non tanto – o per nulla – di ordine morale, quanto invece di ordine gnoseologico, creativo.
I papaveri allora potrebbero essere sì, l’oggetto, il tema principale di questi testi, con tutto il loro portato simbolico ed evocativo, ma sono soprattutto l’esca che avvia, che mette in moto la ricerca poetica.
Domenico Adriano si muove con la grazia di un funambolo lungo le contraddizioni che tramano il mestiere del poeta: prima tra tutte, la volontà di dire ciò che non si può dire. Esplorate, ed esaurite, le possibilità della ragione che tutto squadra ma che non muove e non commuove, resta aperta la strada dell’irragionevole, inclinazione perversa appunto, cioè divergente rispetto alla presunta superiorità del raziocinio. Ma come percorrere quella strada? Come avviarsi per sentieri che non si sa dove portino e con quali rischi? Irragionevole, in questo caso, è il fiducioso abbandono all’estro linguistico e formale che qui si configura come una prodigiosa trottola, un congegno semplice e perfetto che, una volta avviato, può dare il capogiro e può stregare.
Per una strana e incontrollabile associazione mentale, più di una volta – leggendo e rileggendo questi testi – mi sono figurato Domenico Adriano vestito di bianco, con un copricapo a forma di cono tronco, le braccia allargate, il capo leggermente inclinato all’indietro per volgere gli occhi chiusi al cielo, semiaddormentato in una danza vorticosa che lentamente lo conduce alle soglie dell’estasi: insomma, me lo sono figurato un po’ come un danzatore derviscio, intento ad allontanarsi dalle coordinate spazio-temporali che, ora e qui, ci tengono incatenati alle nostre miserie. L’ho visto vorticare su se stesso, leggero e smemorato e quasi sempre appagato, come se lì, in quella dimensione adesso attinta avesse visto cose, avesse riassaporato visioni e godimenti che sembravano cristallizzati per sempre sotto il peso dell’intelletto. Solo che il poeta non è un danzatore. Perlomeno, non danza con il corpo. Dispone di parole, di suoni, di versi. Se del caso, perfino di formule magiche… Allora me lo sono figurato, Domenico Adriano, davanti al foglio bianco e con la penna tra le mani, intento a recitare un mantra, il suo mantra: “papaveri papaveri papaveri…”
Un funambolo, si diceva, che graziosamente incede sull’orlo delle contraddizioni. Si pensi al secondo testo della raccolta : Dunque avviene ancora oggi di vivere/ il fuoco. Tu lo sai, cammini e sembri/ stare ferma, nascono/ da te campi di grano e anche deserti// al culmine del giorno. Lume dopo/lume potessi avere per narrarti/e poi sarebbe lieve morire/il minimo cuore di una lucciola.
Qui la bellezza si manifesta in una sorta di antinomia: l’incedere della donna amata è un movimento statico, moto immoto, ben più di un ossimoro, un paradosso che è perfino difficile collocare (nella realtà o nel cuore dell’amante?). E poi, è una bellezza travolgente che genera metafore vaste e abbaglianti, distese di spighe o di sabbia che rifrangono e moltiplicano all’infinito la potenza del giorno fino a farne l’apoteosi della luce. Eppure, per descrivere tanta bellezza, tanta luminosità, il poeta chiede di munirsi del minuscolo lumino di una lucciola. In questo, fedele all’assunto contenuto nel testo iniziale, vera dichiarazione di poetica, che insiste sull’operazione di limatura incessante e necessaria, come unica via per carpire la Bellezza. Contraddizioni, si diceva, ancora: perché il poeta vede meglio quando è cieco, quando l’estasi creativa finalmente dilaga e spegne le acuminate e pretenziose facoltà raziocinanti. Allora, in quello stato di grazia, si colgono e raccolgono gli attributi della Bellezza: eleganza, semplicità, leggerezza, luce.
Che però, a guardare bene, non sono solo caratteri estetici, ma anche percorsi del pensiero, modalità di approccio alla vita; in specie, quelle di getto preferite dai bambini, le cui attitudini conoscitive non sono ancora viziate da gabbie raziocinanti, non ancora appesantite da rigide e prefissate consequenzialità. Ai bambini, perciò, spetta il privilegio di una spontanea partecipazione alla Natura (alla Verità?) grazie ad una formula magica che gli adulti non sanno più pronunciare: La veste e il corpo leggeri di quando/eri bambina e tra i cardi entravi/con le parole magiche”lucciola/ lucciola vieni da me…”
Così, con un’esplicita dichiarazione di poetica e un’implicita indicazione di metodo, comincia l’estasi creativa di Domenico Adriano, che come un derviscio in cerca della comunione mistica con il tutto, ripercorre le tappe di un’esistenza partendo dallo stadio magico e incorrotto dell’infanzia con i suoi spazi vasti e le sue fondanti scoperte. E lì ci sembra di avvertire l’impeto, il vigore scalpitante delle ginocchia di un bambino che esce di casa e corre alla campagna a cercare il respiro dei cieli azzurri e l’afflato col mondo degli insetti e dei fiori conturbanti. Lo stesso bambino che dopo, appena un po’ cresciuto, non sa sottrarsi all’imprudente, alla provvidenziale predisposizione a correre tutti i rischi del mondo: Nell’orrido nell’oro del torrente/si è lanciato per provare le sue ali. Qui i papaveri hanno un potere salvifico, protettivo, sono invocati come numi tutelari, efficaci ed efficienti custodi dell’integrità della vita, perlomeno di quella infantile. Nel settimo, bellissimo componimento, percorso di formazione in miniatura, nell’arco di sole cinque quartine si consuma l’esperienza della fuga; il bambino è sopravvissuto alle insidie del mondo ed è tornato con tutto il suo candore e la sua innocenza. Notevole la chiusa: Compagni miei nell’arcobaleno/è giunto fin qui a piedi quel bambino./Eternità di pianura e di monte,/odora di panni torti alla fonte. Il candore dell’infanzia è proiettato sopra lande abbaglianti, contro la forza delle montagne, contro lo scenario eterno del Tempo, ma al tempo stesso è “localizzato” nell’immagine e nell’odore dell’acqua, nei colori e nei sapori trasparenti e buoni di quelle mani di mamma che hanno lavato i panni del figlio sulla pietra del fontanile.
Ruota il derviscio, chiude gli occhi il poeta, vorticano le parole e la poesia trova la sua strada oltre la ragione, in un amore assoluto estremo naturale/cui non pensava il pensier mio. Unica costante, in questo vorticoso moto creativo che tutto avvolge e travolge, è la presenza dei papaveri, cui di nuovo viene assegnato un potere salvifico. Il poeta vuole essere rapito nel regno del Desiderio assoluto, ma al contempo cerca un appiglio per ancorarsi alla vita, alla proda sicura: chiede di essere condotto per mano, di essere salvato, ma anche di essere trafitto nel suo corpo infiammato. In questa stagione dell’esistenza - ma forse è sempre così - la trasgressione è la libertà ed essa produce con uguale forza magnetica la duplice pulsione vero l’ignoto e verso il già noto.
Ancora le contraddizioni. Ora, però, a vincere è il desiderio di perdizione: desiderio di smarrirsi nel vortice del desiderio, di evadere, di sfondare il recinto del giardino come suprema infrazione, prima e originaria rottura del divieto, primo e indispensabile atto di libertà: siete/ voi il mio desiderio o miei spiriti/dell’aria, miei fiori amanti, animo/prendetemi forza trapassatemi//precipitosi, l’infiammato corpo.
Il meccanismo non si ferma più: la trottola gira, gira la giostra della vita.
E porta con sé e spande intorno la potenza dell’eros e le sue gioie. Ma i papaveri? Presenti. Sempre presenti. Come un mantra, si diceva, come una costante iconica, o come formula verbale che apre e discopre mondi incogniti, che sgrana le stagioni e il passaggio del Tempo: Per dove vagolarono in inverno/nel bianco della neve i pettirossi/ora voi fiammeggiate tutt’intorno/o papaveri miei lungo i fossi.
Passaggio del tempo che si manifesta come coscienza dell’effimero: non tutto sarà sempre così: cantano le cicale ai miei occhi/per il tempo che arde a noi concesso. Le cicale stanno lì a ricordarci come tutto passa e quanto sia piacevole tuffarsi nella luce finché rimane accesa. Perfino nell’inconsapevole generosità dei fanciulli fa capolino il presagio del malessere che ci attende, il presentimento che lo spontaneo abbandono all’ebbrezza della vita ad un tratto avrà fine: O papaveri musici, silenziose/forse non più sentirò ali di angeli.
E non a caso in questo incessante vortice, in questa spirale del tempo e dei ricordi, i papaveri fanno capolino con nuovi e più inquietanti attributi: O miei papaveri strappati al sole,/suoi petali di fuoco, cari demoni. E ancora: papaveri papaveri crudeli/i vostri cuori quanto sono neri. Qualcosa sta mutando. Forse incalzano gli anni, aumentano le tensioni, sconfitte e delusioni si affacciano al risveglio.
Man mano che si procede nella lettura di questi testi, affiora più evidente il legame tra i Papaveri e la Poesia. Da un lato l’essenza e il significato dei papaveri (Bellezza, Leggerezza, Sensualità, Amore e Morte, Onnipresenza, Caducità,…); dall’altro il difficile sforzo di dire, di trasformare in parole il magma che noi siamo e in cui viviamo: ora a voi somiglio/e il vostro fuoco per le mie parole/vorrei perché si aprissero da sole. E ancora: papaveri papaveri al risveglio/come siete freschi a voi mi appiglio./Ma non ho parole non ho parole,/solo le vostre odorano di sole. Tant’è vero che quando i papaveri finiscono in polvere, le parole del poeta sono insufficienti a dire. Dev’essere quella fase di scoramento che assale il poeta dinanzi all’incommensurabilità, all’impossibilità, del compito. Folle progetto, quello del poeta, che tenta di dire l’indicibile: e allora riaffiora la tentazione di scambiarsi il ruolo e gli strumenti col pittore, il quale – forse – dispone di superfici e segni e toni più ampi e finalmente dispone dei colori, che tutto dicono e tutto coprono:O miei papaveri finiti in polvere,/ora che le parole sono povere/il poeta vorrebbe farsi pittore/sciogliere il suo lutto in puro colore.
Ma anche questa è solo una fase, destinata a scorrere e trascorrere nella centrifuga dell’esistenza. E ritrova il suo mestiere il poeta, a patto che sappia farsi fanciullo sulle orme di una bimba: O rossi papaveri che la mia bambina/scoprì su uno scoglio al grido bianco/di un cigno: siete spuntati una mattina/come il sole dal becco di un uccello.
Un vortice, questo Papaveri perversi. Una spirale che stende e spande temi, li lascia, li ritrova, li modifica per variazione: l’incanto dell’infanzia, la curiosità giovanile, l’accensione dell’eros, la pulsione ulisside, la seduzione del divieto, la tentazione della resa, il rinnovato vigore nella paternità… E se, da un lato, l’invariabile predilezione per la quartina tradisce un bisogno di ancorarsi alle solide e nobili forme della tradizione, dall’altro l’esplorazione delle forme e dei suoni procede col gusto ludico di apparenti nonsense. In più di un testo l’occorrenza delle rime, il vasto campionario di paronomasie, ma soprattutto il ritmo degli accenti richiamano un verseggiare che è solo a un passo dal limerick, o dalla filastrocca, specchio incantato dello stupore infantile, nel quale può capitare che anche gli adulti ritrovino d’un tratto la traccia autentica della bellezza – semplicità, eleganza, leggerezza, luce - che temevano perduta per sempre:
Papaveri accorrete e con il drago,
se ne va un bambino per il tetto.
Papaveri papaveri vi prego
portatelo con voi insieme al gatto.
Amici miei poveri e solari,
è volato sul più alto dei rami.
O papaveri fate che si ami,
che non si perda per gioco nei mari.
il titolo mia fa ricordare la bellissima raccolta di poesie Mohn und Gedächtnis (Papavero e memoria) di Paul Celan
ردحذفottima segnalazione (che non conoscevo); D. Adriano in epigrafe ricorda versi di John Keats e di C. Govoni. A me sono venuti subito in mente il finale de "La lupa" di Verga e, naturalmente, De Andrè... Sempre interessanti i rimandi
ردحذفإرسال تعليق