Ogni venerdì

di Natty Patanè


sospesi, ciondolanti, trafitti e abbandonati

Ogni venerdì

Malgrado fossero trascorsi già due anni, ogni venerdì Francesco continuava a sentirsi quella strana sensazione, fino a un po’ di tempo prima pensava di poterla chiamare impazienza, forse emozione, ma aveva ormai smesso di cercare un nome, sapeva solo che il venerdì aveva il suo consueto, atteso appuntamento con il dottore. Sapeva che questa volta gli avrebbe raccontato di quell’immagine che rivedeva così intensa e acida da una settimana circa.
Il pomeriggio d’estate era caldo ma non ancora afoso e da una TV lontana echeggiavano telecronache di campionati europei di calcio. Dal pavimento di antico cotto bagnato risaliva un odore intenso di polvere e vapori. Francesco amava poggiare le labbra sulla vecchia ringhiera in ferro battuto, gli lasciava un sapore che negli anni sarebbe riaffiorato, di tanto in tanto. Dal palazzo di fronte una signora chiamava il figlio:
- Roberto, Roberto vieni che devi fare la spesa-
era solo un volto, ma lontano, dietro un’inferriata. Sul terrazzo accanto un bimbo cantava a squarciagola - il cuore è uno zingaro e va! e va! -.
Imperterrito il campanile della cattedrale batteva i colpi di un giorno che lento andava a spegnersi. Guardò a destra, sul muro scrostato una gabbia vuota, un giorno c’aveva vissuto un merlo, il nonno gli diceva che era morto “d’appriconia”, che non era solo malinconia ma qualcosa di diverso, di più.
Spesso gli era sembrato di risentirlo quel sapore di ferro, perso nel tempo, ma ogni volta si era accorto di averlo solo immaginato. Proprio in quei giorni era tornato a far visita alle sue labbra, con il corredo di fotografie un po’ spente che ogni volta gli si paravano davanti agli occhi.
- Devo proprio parlarne al dottore, chissà cosa ne pensa. - disse fra se e se.
Accese la radio e iniziò a prepararsi per una doccia.
L’acqua calda scivolava rapida. Socchiuse le labbra e chiuse gli occhi, liberò memorie: Greta camminava qualche passo avanti, una luce oscillante tra l’oro e l’ambra tramontava nei vicoli di Marzamemi. Scalzo si diresse dietro un grande portone, nella corte una mostra di attrezzi dell’agricoltura e della pesca tradizionali, radi turisti commentavano a bassa voce.
Abbracciami – gli disse Greta senza guardarlo e aspettò paziente,
- guarda, la c’è l’Africa
aggiunse indicando, nel buio che arrivava, il mare. Poi, come rapita:
- ascolta, questa musica, zitto, ascolta -, una finestra semi aperta sventolava una tenda a rete e pennellava l’aria di un “vedrai, vedrai” che s’abbarbicava sulle spalle e scuoteva i capelli.
Greta guardò giù dalla terrazza, giù verso il mare e si perse nel suo stesso sguardo.
Uno squillo del telefono interruppe, violento, i ricordi, Francesco uscì un piede gocciolante ma ci ripensò subito e lasciò squillare, coprì il volto con le mani e sfregò gli occhi che bruciavano per lo shampoo.
Si avvolse nel telo e osservò i cristalli posizionati sul drappetto di cotone bianco sulla mensola e decise quale incenso accendere in soggiorno,
- il dottore riderebbe dei miei cristalli, ma è tanto comprensivo -.
La musica lo riportò ad una festa di paese, un ritmo frenetico di tamburelli scalciava e sbatteva al centro della folla a muoversi sudati e poi sfatti. Dopo anni Carmelo lo aveva cercato e gli aveva proposto di vedersi. Non capiva se era invidioso della sua follia o solo estasiato nel guardarlo sudare con la camicia rosa che si appiccicava ovunque, mentre si faceva trasportare dai tamburi, intanto rullava una canna in attesa di nuove,
- fatti un tiro - gli disse mentre allungava una mano
-è la sera giusta, vieni a casa mia, sto solo.
All’ennesimo squillo decise di rispondere.
- Stiamo facendo un’indagine sui consumi di detersivi
Francesco si augurò che prima fosse la stessa signorina dalla voce annoiata a telefonare, così da non aver perso niente:
- io non lavo mai - rispose riattaccando, poi sprofondò sul divano e si infilo le calze, accese la lampada in legno e juta e si divertì a fare le ombre sul soffitto con le mani, all’elefante si mise quasi a barrire.
- ma al dottore piacerebbero i “Kunsertu”? – si chiese scosso dal ritmo siculoafricano.
Il telefono suonò ancora,
- No Mario, stasera non ho proprio voglia, adesso sto per uscire, poi tra due orette torno, mi faccio un panino e mi vedo l’ultimo Kiarostami, come? noia? Ma come fai ad annoiarti con Kiarostami? Devo farti vedere qualcosa che ti piacerà sicuramente, va bene, anche Scorsese, va bene, ciao.
Non lo avrebbe stanato nessuno.
Infilò il giubbotto, annodò la Kefiah e scese verso l’auto.
Un sirtaki gli accese la radio, poi le luci gialle e fredde dello svincolo dell’autostrada, il casello, l’agave che sbucava dalle rocce, l’oleandro che tra poco sarebbe esploso, freccia a destra come ogni venerdì, la signora dal cappotto giallo scende, poteva suonare.
Raccontò, del nonno, del merlo, dei tetti di tegole che spianavano la strada allo sguardo fino ai campanili della cattedrale, del silenzio, della solitudine e della tristezza delle domeniche sera.
- non deve essere stato facile – gli disse il dottore con la sua voce bassa e gentile, - non deve essere stato facile – si ripeté Francesco
Kiarostami o una birra a ”l’Altro mondo”? aveva così voglia di rintanarsi prima! ora il buio oltre i fari della sua auto gli chiese di cambiare idea.
Spense subito la radio, gli sembrava quasi di sentire rumori di campagna e andò su e giù d’umore mentre la macchina sputacchiava al semaforo, motorini sfrecciavano da tutti i lati nelle strade di insopportabile città.
Fece uno squillo a Greta e poi a Mario, l’appuntamento era al pub, lento andò al parcheggio, il “capo” gli chiese soldi e non s’accontentò di poco.
- Media bionda con gin, grazie
Al tavolo vicino due donne si baciavano con intensa profondità. L’aria sembrava appiccicosa come miele.
La solita musica blues si insinuava fra le gambe dei tavoli del pub, come in tutti i pub, scansando estremità umane che si toccavano, scalciavano, toccavano ancora, accarezzavano, quasi scopavano.
Di tanto in tanto dalle porte spalancate si riversava, dolciastro, odore di fumo misto a cazzi e fighe sparsi qua e là da giovani bocche.
- Ciao Mario, un bacio Greta -, lei gli sorrise e poggiò le sue labbra sulla sua guancia.
- c’è già un sacco di gente che va verso il mare-
gettò lì Greta avvicinando la sedia al tavolo, poi cominciò con una spirale di stronzate che aveva detto sua madre che ogni tanto sembrava proprio che quella donna avesse perso ogni parvenza di ragione.
Per qualche ora Continuò la danza di fumo, musica, chiacchiere, musica, chiacchiere, fumo, musica, guardava ogni cosa senza vederla, ascoltava ogni suono senza sentirlo, cercava qualcosa nella mente e trovò solo ricordi strani.
Ricordi.
Ancora:
Ritmico batteva le nocche della mano destra sulle lastre di basalto dei palazzi nobiliari, la sinistra stretta dal nonno, dun, dun, dun un colpo, una pietra,
- non mettere le mani sui muri, c’hanno fatto la pipì i cani - peccato, era bello ritmare il tempo da casa a scuola, dun, dun, dun.
Mario l riportò al tavolo alzando un po' la voce:
-…e così lei tira fuori la carta d’identità dove al posto della sua foto c’è quella di una nasica, capisci? Di una nasica - Mario rise pensando a Elsa e alle sue follie ai posti di blocco, Francesco fermò i ricordi per un istante, solo uno, poi gli tornò la marcia di Radetzky che risuonava per tutto il cortile della scuola e Silvia che recitava la parte della bella appena salvata da un grave pericolo dal suo eroe
- Destro! – urlavano le maestre con fare ridicolmente marziale
sbam!
- sinistro!
sbam!
Sotto un sole che diventava sempre più caldo.
- sbam! - e le maestre si immaginavano volteggiare in un college di un film americano degli anni ’50.

Pagato il conto si diressero caracollando per i vicoli.
- Mario, metti i Fine young cannibals per favore - accese un’altra sigaretta mentre la macchina si riempiva di “blue”, poggiò i piedi scalzi sul cruscotto della vecchia Panda e chiuse gli occhi,
- quel dottore mi fa proprio strani effetti. -
Quella notte sulle pareti della camera da letto a lungo giocarono la luce bluastra della tele e quella gialla di fari lontani, Panelli e Bice Valori duettavano senza audio in una scheggia di vecchia tv.
Francesco fissava il soffitto, ripensando ad antiche terrazze a picco sul mare e a un età persa da tempo, Dio! Da bambino voleva subito crescere e ora? era questo crescere? Era questo silenzio nella notte?
Questo sguardo fisso nel vuoto ed in una città spenta che girava nei fari alogeni delle sue auto?
Era cercare disperatamente cinque minuti per sognare ad occhi aperti scene impossibili?
Chiamò Rob e Marta e Luca e Dilo e suo nonno e quel cane che vide un giorno rovistare nella spazzatura, chiamò chiunque, lì a raccolta per rivelar loro la verità, si spogliò e salì sul palco a gridare le sue verità,
plurime,
applausi,
tutti in piedi,
s’inchinò a quei sogni.

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