Tunisi. Il sapore acre delle pallottole

di Leonardo Palmisano


L’Eid el Fitr – il piccolo eid che segna la fine del ramadàn – ha un senso acuto e un odore forte di festa e fumo quest’anno a Tunisi. Il fumo denso delle salsicce (merguez) arrostite per strada e quello acre delle pallottole sparate qualche mese fa contro i giovani manifestanti della rivoluzione dei gelsomini. Ma questa non è soltanto la festa dei tunisini liberati da Ben Alì: è la festa degli esuli libici che aspettano la fine del Rais.


Gheddafi cade e per strada compaiono prima timidamente poi sfacciatamente le nuove bandiere rossoneroverdi della Libia che ancora non c’è. La Libia pare essersi liberata di un grave, ma pochi mesi fa la piccola Tunisia ha sciolto se stessa dall’opprimente Zinedine Ben Alì. Un capo che non si presentava con la djellaba ma in marsina e doppio petto, patacche al collo e medaglie d’accatto, inghiottito dall’odio e dall’oblio, digerito dalle viscere del destino incerto dei giovani ribelli tunisini. Gheddafi invece ha resistito rendendo necessario l’intervento di un Occidente che ha garantito il buon esito di una insurrezione sospetta sin dall’inizio di essere diretta altrove, lontano dal tanto evocato ‘popolo libico’.


È questa la parola che corre di più sulle bocche del Maghreb in questo ultimo scorcio di ramadàn. ‘Popolo’, la stessa parola che correva negli altisonanti discorsi di Ben Alì e Mubarak.

Come sta facendo il nuovo leader libico Mustafà Abdeljalil da prodigo conferenziere, professandosi al mondo come uomo al servizio del popolo e di dio. Ma dov’è? Cos’è il popolo libico? Una porzione di esso vive da qualche mese a Tunisi. Quindi non soltanto i miserabili sfollati rinchiusi ancora nei campi tunisini del sud, nel governatorato di Tataouine, scacciati dai bombardamenti Nato, sistemati adesso dove l’esercito tunisino spara su non meglio precisati ‘infiltrati’ uccidendone alcune decine a settimana; ma anche gli ex sostenitori del colonnello pronti a rimettersi in gioco per la ricostruzione del paese.


Blindati dentro grosse quattro per quattro e auto di lusso, i libici di Tunisi sfrecciano sulla grande avenue Mohamed V dove ha sede la fastosa ambasciata del colonnello, accanto al meraviglioso albergo da mille e una notte Abu Nawas che uno dei figli di Gheddafi ha recentemente acquistato grazie alla mediazione della moglie di Ben Alì. Questi libici sono protetti dalla polizia e dall’albagia della ricchezza ostentata, e da un cinismo beffardo che stona con la povertà tunisina circostante. Sono questi gli intervistati dalle tv francesi, i fotografati dai belgi sbattuti sulle prime pagine de Le Temps e La Presse, i quotidiani in lingua francese più letti in Tunisia.


L’attenzione internazionale sulla Libia ha già offuscato la breve rivoluzione tunisina. La Libia, nonostante le incertezze del momento, non si smuove dal suo ruolo di potenza, di grande giacimento di risorse. Non stupisce allora che il Sud Africa – alleato e antagonista di Gheddafi – si affretti a richiedere alla comunità internazionale un arbitrato tutto africano per il dopo. Sembra un modo per controbilanciare lo sciacallaggio occidentale sulle risorse libiche.


La Libia, infatti, non è soltanto una porta d’Occidente sull’Africa centrale, ma una robusta cassaforte dentro la quale l’economia mondiale in crisi può trovare temporanei mezzi di sussistenza, ossigeno per i mercati, petrolio per i consumi e porti per i traffici trans-mediterranei. Se il regime ha retto fino ad oggi, è perché il colonnello ha garantito le tribù – la sua innanzitutto – concedendo prebende e rendite, mantenendo l’ordine patriarcale delle cose usando almeno due milioni di immigrati centrafricani come schiavi delle raffinerie e schiave del sesso. Dunque la sua fine impone un interrogativo più ampio sul futuro dell’area sud-mediterranea. Per questo seduto accanto a Frattini nella conferenza stampa di Berlusconi sulla liberazione dei giornalisti italiani c’era il presidente dell’Eni Scaroni.


L’Eni è nel Maghreb con i suoi gasdotti e distributori di benzina Agilair – quelli che riforniscono le caserme tunisine. Con l’Eni la Shell e le principali compagnie petrolifere saudite e statunitensi. Nessuna mobilitazione magrebina ha scardinato questo sistema di potere. Le multinazionali sono lì. Campeggiano su Tunisi i manifesti degli yogurt Danone, dei Carrefour, dei prodotti della Lines, del caffé Lavazza, delle automobili europee e giapponesi. Il colonialismo del mercato non è stato arrestato dalla rivoluzione tunisina e non si arresterà in Libia, ma trionferà con la presa del potere da parte di Abdeljalil, sdoganato dal populismo dei vincitori. Ma a differenza della Tunisia - dove il 23 ottobre si voterà e finalmente anche le sinistre fuori legge (il Parti Ouvrier Communiste de Tunisie, Poct, e EttaJdid, la nuova sinistra) potranno partecipare e cercare di frenare l’islamismo crescente rappresentato dal movimento partito Nahdha (letteralmente Rinascimento) dentro il quale stanno confluendo gli ex di Ben Alì finanziati dai sauditi – la Libia avrà una probabile transizione finta, forse lunga forse brevissima, ma certamente priva di quei controlli popolari che i comitati rivoluzionari di quartiere tunisini hanno messo su per scongiurare un ritorno al passato.



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