Stava, val di Fiemme: il patto corretto con la Natura



di Roberto Tortora


“Dove ci sono più farfalle, la vita è migliore anche per l’uomo.”
Lo affermano entomologi ed esperti di biodiversità. Basta trascorrere un breve soggiorno estivo nel cuore della Val di Fiemme, tra Cavalese e Moena, per costatarlo di persona. Mai viste tante farfalle come quelle che svolazzano sui prati sterminati che ricoprono Stava, frazione di Tesero. Per chi proviene dalle città e si porta nel naso e sulla pelle l’afa inquinata dai gas di scarico, passeggiare tra queste malghe equivale a entrare in un mondo incantato: sembra di scivolare in uno di quei disegni a pastello che illustrano le fiabe per  bambini. L’aria luminosa riflette la durezza della roccia, steli di arnica e petali di genziana ondeggiano alla brezza del nord, il sottobosco esala essenza di pino cembro. Da queste parti l’infinito ha più voci:  lo stormire del vento sulle cime degli abeti, il sibilo del fieno ammassato intorno ai masi, il chioccolio dell’acqua negli abbeveratoi scavati nei tronchi. Sono le Dolomiti, Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. L’Eden a portata di tutti.
Eppure, come in uno specchio impazzito, come in una foto graffiata col raschietto e virata al marrone del fango, appena pochi anni fa questi luoghi apparivano ricoperti da una melmosa colata di limo.
Il  19 luglio 1985 cede l’argine del bacino di decantazione di una miniera a monte di Stava. 180 mila metri cubi di materiale oltre ad altri 50 mila metri cubi originati dall’erosione, dagli edifici distrutti e dallo sradicamento di centinaia di alberi si abbattono a 90 Km orari su questo territorio incantato. Le cifre parlano da sole: “268 vittime, la distruzione completa di 3 alberghi, 53 case d'abitazione e 6 capannoni; 8 ponti furono demoliti e 9 edifici gravemente danneggiati. Uno strato di fango tra 20 e 40 centimetri ricopriva un'area di 435.000 metri quadri circa per una lunghezza di 4,2 chilometri.”
Una delle più gravi catastrofi a livello mondiale dovute al crollo di discariche a servizio di miniere.

Seguirono la conta delle perdite – quelle che si potevano contare – l’analisi degli eventi, l’accertamento delle cause e delle responsabilità, i processi, i tortuosi e lunghi itinerari burocratici per ottenere il risarcimento dei danni.
Oggi Stava è rinata. E’ stata ricostruita grazie alla determinazione e all’amore dei sopravvissuti e dei discendenti delle vittime.  A destra e a sinistra della Strada Provinciale n. 215 che sale verso l’alpe di Pampeago, verso passo Lavazè, gli alberghi hanno nuovamente guadagnato la posizione eretta, integrati nel paesaggio come solidi chalet di montagna. Ci sono la chiesuola, una manciata di abitazioni ritagliate nei prati, coi loro tetti di legno, spioventi,  pronti a resistere alle nevicate. C’è il torrente che in estate e in inverno è l’unico a rompere il silenzio perfetto del giorno e della notte. C’è un bar. E c’è un encomiabile Centro di Documentazione http://www.stava1985.it/stava1985/ per ricordare quanto è accaduto e per far sì che certe tragedie non si ripetano.
Una rigorosa ricostruzione dei fatti ha stabilito che il disastro è stato provocato dallo scriteriato intervento dell’uomo. I tecnici hanno sfidato la Natura e lo hanno fatto nel peggiore dei modi, forzando il rapporto armonico con la montagna.
La gente del posto, invece,  sa bene che non è questa la strada, sa che non sono queste le regole per vivere in armonia con la natura.
A Stava vive Francesco Mich, una  guida alpina che ha scalato il Nanga Parbat sfidando se stesso senza violare la natura. Lui e gli altri abitanti della valle, prima di guidare un gruppo di escursionisti, tendono l’orecchio ai tuoni notturni che guerreggiano dietro le creste più alte, sanno monitorare la friabilità della roccia, riconoscono le insidie di un ghiaione. Sono i figli di questa terra benedetta che pretende umiltà assoluta e rispetto incondizionato. Ubbidiscono ai tempi e alle bizze della natura e fanno un passo indietro al momento opportuno.
Basta solo questo. E’ sufficiente riconoscersi uomini fragili come steli di miosotide alpino che oscillano lenti al vento del nord. Basta distendersi supini sui prati estivi, immergersi nella purezza ambrata dell’aria, guardare gli insetti e le farfalle svolazzare festosi all’altezza delle corolle di nigritella, ascoltare la musica incorrotta dell’acqua ghiacciata che scorre da decine, da centinaia di cannelle di ferro e il paradiso è alla portata di tutti.
Basta solo non dimenticare che lì davanti, incombente e maestoso sulla nostra precarietà, svetta un monte che ha 250 milioni di anni.

Foto: Tito Rossini, Resurrezione, olio su tela



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