Una candela a palazzo Carcaci


di Natty PatanĆØ

Il cancello stenta ad aprirsi, poi, con lentezza lascia un varco per farci passare. Uno ad uno ci intrufoliamo nel vialetto coperto di erbacce inumidite nel pomeriggio autunnale. In fila indiana ci dirigiamo silenziosi e nascostamente impauriti verso l’ingresso del palazzo. In testa leggende e voglia di sfidarsi. Palazzo Carcaci domina una collina che guarda l’autostrada, ma nel paese vive nascosto dalla vegetazione che cela gli sguardi dei suoi mascheroni scuri di lava che stentano a sorreggere il peso di balaustre in ferro battuto e di decenni di abbandono.

Giada mi precede guidandomi con la sua scia di Aneis-Aneis, Dario, Filippo e Carmelo aprono la fila, a chiudere le tre sorelle Gubitosi, alcune foto ci fissano in jeans e giubbini coloratissimi come impongono gli ’80 che si dirigono verso la loro metĆ .

- Qua c’ĆØ una porta aperta

Ci chiama Carmelo, sorride e si dimostra spavaldo come quando ha comunicato a tutto il liceo che prima della fine dell’anno scalerĆ  la palma che domina l’ingresso. Spinge l’anta di legno marcio e apre la nostra vista all’oscuritĆ  dell’interno

- Ma non ci bastava d’essere entrati a Casalotto?

Si lamenta una delle Gubitosi ricordando che solo qualche settimana prima eravamo riusciti ad esplorare il parco che circonda la villa dei marchesi di Casalotto, vinta dal tempo e dalla vegetazione anche quella. Ci eravamo introdotti tra le piante fino alla chiesa sconsacrata teatro, vero o presunto, di riti satanici o forse solo di ritrovi e scambi di droghe di vario genere, avevamo riso intorno alle cantine dal tetto ormai crollato per ammutolirci di fronte ai leoni in pietra che delimitavano piscina e campo da tennis ormai percorsi solo da foglie morte sferzate dai venti.

- Paura?

Le chiede mescolando ironia e tenerezza Dario che immediatamente dopo segue Carmelo sparendo nel buio, poi, mentre entro seguito da Giada, accende con i cerini di Carmelo l’unica candela che abbiamo portato. Un salone dal passato intenso, testimoniato dall’enorme tavolo da biliardo che troneggia in centro, sui due lati porte si aprono su stanze in infilata, noi ragazzi facciamo battute, spavaldi, ma pian piano il tono delle nostre voci si abbassa e non sappiamo se ĆØ per la paura o per il rispetto del tempo e delle storie che avranno sicuramente popolato il palazzo. Le ragazze si avvicinano piĆ¹ silenziose, Giada mi prende la mano, rispondo goffo e non abituato, lenti ci dirigiamo verso un’altra stanza, tutte le porte dei balconi sono sbarrate da assi che fermano le persiane, ma la luce che filtra dagli spiragli e la candela, ci rimandano soffitti affrescati e pavimenti in graniglia di cemento multicolore che disegna tappeti e arabeschi, qualcuno approfitta per rimanere indietro e stringersi come se niente potesse mutare e fosse amore eterno quello scambio umorale mediato dalle labbra inumidite da burro di cacao profumato.

- Tienimi la mano Giada

Penso,

- Tienimi la mano e portami verso un altro me, fammi diventare quello che pensi io sia, abbracciami e la tenerezza e l’amore che sento diverranno eterni

- Guardate! Un passaggio

Dario ha aperto un’anta di un armadio a muro e mi ha riscaraventato nella realtĆ , fuori dai miei sogni e incubi

- C’ĆØ una scala

- Scendiamo dai!

Ci guardiamo, stiamo quasi in cerchio, potessi fermare l’immagine vorrei rivederla tra 30 anni e sorriderei dei nostri capelli, dei nostri colori, dei nostri sorrisi, della montatura degli occhiali di Dario o forse mi intenerirei per le mani intrecciate delle varie coppie o di quell’aria d’avventura che chissĆ  quanti prima e dopo di noi hanno vissuto e vivranno o dell’aria da uomo vissuto che si impone Dario anche quando si avvia per primo giĆ¹ per gli scalini, ad ogni piede che scende la mia etĆ  aumenta e lascia indietro i miei 17 anni, li perde per sempre e mi consegna ad un mondo che quei sorrisi e quella tenerezza stenterĆ  a ritrovare, altro gradino

- Ma che cerchiamo?

Mi chiedo senza rispondermi e ripensando alla voce di Janis Joplin che canta “You don’t know what is love”

Altro gradino

- E domani?

Cauti scendiamo.

Inesorabili scendiamo.

D’un tratto un urlo, il buio della candela che cade

- Cazzo! C’ĆØ qualcuno

Urla il nostro tedoforo

- Accendi presto

- I cerini! I cerini!

La fioca luce si riprende e in pochi istanti libera una risata dei primi due della fila che vedono nella sala che si apre alla loro sinistra la presenza che li ha inquietati, scendiamo tutti e attorniamo una polverosa statua di un angelo che piegato guarda in basso e non ci rivolge lo sguardo come l’etĆ  che oggi va via e posa i suoi occhi su altri, come un testimone che attende un nuovo gruppo che vuole scavalcare un recinto e buttarsi ad ali spiegate verso la corsa, verso la fuga.

Con calma ritroviamo l’uscita dopo aver visitato i due piani per lo piĆ¹ svuotati e devastati da vandali, fuori ĆØ quasi sera, sui nostri vestiti polvere, le piante cominciano ad essere imperlate dell’umiditĆ  della sera che nella sua foschia cela giĆ  la vista dell’Etna e si confonde con il forte sentore di erbe calpestate e di “scacciata” appena sfornata da qualche parte non lontano.

Mi fermo e fermo Giada che adesso mi cammina davanti, si gira e sorride

- Che c’ĆØ?

- Niente, niente, andiamo Giada -



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