europea”, tra le più importanti nel settore in Italia.
Lo sforzo ammirevole dei curatori ha portato all’apertura di diverse sedi espositive al chiuso e anche mostre all’aperto. Il titolo generale si richiama a un verso di una poesia di Gianni Rodari: “Sulla luna e sulla terra fate largo ai sognatori” (leggetela tutta, è splendida). Direi
che oggi c’è un gran bisogno del poeta che “a sognare i più bei sogni / è da un pezzo
abituato: / sa sperare l’impossibile / anche quando è disperato”.
Scrivo qui della mostra più importante, che si svolge a Palazzo Magnani, intitolata “True Fictions, fotografia visionaria dagli anni ’70 a oggi”. La trovo assai interessante, perché mette in discussione l’idea che, comunemente, si ha della fotografia come di uno strumento di rappresentazione della realtà.
Sappiamo che la nascita della fotografia mise in crisi tanti artisti visivi, che videro come un mezzo meccanico riuscisse a riprodurre un paesaggio o una figura con più esattezza di quanto loro potessero fare. Questo, però, sviluppò la riflessione sul fatto che l’arte non dovesse essere fedele rappresentazione della natura e, quindi, aprì la strada alle avanguardie storiche, che rompevano tutti gli schemi tradizionali e aprivano viaggi nell’immaginario, nel non visibile, nell’interiorità.
La fotografia rimase per molto un’attività meno nobile, più funzionale alla documentazione che forma d’arte. Ci fu anche un tentativo di copiare la pittura, realizzando immagini sfumate, che richiamavano i quadri di paesaggio o i ritratti (fotografia pittorica). Poi cominciò ad evolversi, con le rappresentazioni urbane di Atget, le ricerche formali dei costruttivisti e dei surrealisti, e la nascita del fotoreportage con Capa alla guerra di Spagna, Cartier Bresson e tanti altri. Il dialogo tra fotografia e le altre arti visive è diventato sempre più intenso e sempre più sono stati i fotografi ospitati alle grandi mostre d’arte internazionali e gli artisti che usano fotografia, video, cinema nel loro lavoro.
Rimane, nel sentire comune, l’idea che la fotografia abbia a che fare con una riproduzione realistica di cose, persone, ambienti. Sappiamo che, a cavallo tra anni ’70 e ’80, il mondo occidentale è stato attraversato da un forte mutamento sociale e culturale. Si è esaurito il ’68, e con esso l’idea che fosse possibile un cambiamento radicale del nostro mondo. Le istanze di cambiamento si sono mutate in disillusione, ripiegamento nel privato, rinuncia all’impegno politico. Siamo entrati nell’era di Reagan, della Thatcher, delle discoteche, della droga come fuga e negazione della realtà. Nelle arti sono nati movimenti che ripescavano, in modo alquanto indiscriminato, nella tradizione, come la Transavanguardia o il Neo Espressionismo.
Diversi artisti hanno cominciato a pensare che la fotografia potesse essere un ottimo strumento per dare spazio alla fantasia, realizzare racconti, manipolare la realtà, a volte anche per farci capire che questa realtà non è necessariamente ciò che appare e che una sua rivisitazione potesse far emergere quanto di ambiguo e nascosto potesse celare. Si tratta di artisti diversi, che inscenano rappresentazioni in cui la presunta oggettività dell’immagine fotografica viene messa in discussione con tecniche varie, che hanno comunque lo scopo di creare corto circuiti visivi.
Oppure che usano il mezzo per raccontare storie, quasi come se si bloccasse un fotogramma
di un film e, da quell’unica immagine, lo spettatore fosse chiamato a costruire, nella propria mente, uno sviluppo della vicenda. Nella prima sala della mostra di Palazzo Magnani ci sono lavori di alcuni dei più famosi rappresentanti di questo uso del mezzo fotografico, a partire dall’americana Cindy Sherman, che opera una totale destrutturazione della propria identità attraverso la tecnica del travestimento. Da decenni assume il ruolo di casalinghe, personaggi storici, icone della pittura, mostrando sempre, nelle foto che la raffigurano, un’immagine di sé che non corrisponde a quella sua nella vita quotidiana. Si perde quindi in una vertigine visiva
dove non esiste più un io soggettivo ma una pluralità di travestimenti che mettono in discussione la sua individualità. L’australiana Tracy Moffatt, nel lavoro intitolato “Something more”, mostra il primo piano di una figura femminile che ci lascia immaginare una giovane che pensa al proprio futuro, e che sicuramente non è soddisfatta della condizione presente. Le figure che sono alle sue spalle possono aiutare lo spettatore, cui si richiede una partecipazione immaginativa, a costruire una storia di questa giovane che cerca “qualcosa di più”. Lo schema della messa in scena, che riprende stereotipi cinematografici o televisivi per uscire dalla quotidianità, è presente in altri artisti in mostra, come Eileen Cowin, che, in “Family Docudrama”, mostra una situazione da soap opera: una donna di spalle in primo
piano, un letto, una donna seduta che la guarda e un uomo che sembra dormire.
Allo spettatore continuare la storia. Un altro schema è quello della presentazione di immagini che appaiono rappresentazioni realistiche e che invece sono totalmente false e che quindi ci fanno riflettere sulla nostra percezione delle cose. Il tedesco Thomas Demand costruisce interni e paesaggi usando carta e cartone, fotografandoli e poi distruggendoli. Rimangono le immagini, apparentemente realistiche, che invece ingannano la nostra percezione, così come le finte architetture di James Casebere.
Il canadese Jeff Wall realizza foto apparentemente naturali e spontanee, che invece sono il frutto di una accurata messa in scena, in cui attinge anche al patrimonio iconografico della storia dell’arte. Un altro caso è quello del fotografo camerunense Samuel Fosso che, nel suo studio, ha eseguito una serie di autoritratti in cui assume pose di vari personaggi, sia occidentali che africani, intraprendendo viaggi dell’immaginazione, del desiderio, della memoria. Un fotografo spagnolo, Joan Fontcuberta, presenta le immagini di animali che non
esistono ma a cui lui conferisce apparenza di veridicità, con una grande quantità di
finta documentazione scientifica, che ci rende credibili quelle improbabili rappresentazioni. Tutte queste operazioni sono definite come “Staged Photography”, cioè messa in scena fotografica, che crea storie possibili, inganni della percezione, ci invita a un uso attivo degli strumenti immaginativi. Il rischio è che la fotografia perda il proprio statuto originario e si trasformi in gioco fine a se stesso, tra narcisistica autorappresentazione e gioco intellettualistico, rinunciando a documentare sui temi politici e sociali che urgono ai nostri tempi. Comunque la mostra è ben fatta e ha il pregio di mostrarci una possibile strada e di interrogarci sulla funzione delle immagini nell’epoca del diluvio delle stesse.
La mostra a Palazzo Magnani è visitabile anche senza prenotazione. E’ possibile
acquistare un biglietto che permette l’accesso anche a tutte le mostre fotografiche
in varie sedi cittadine, molto interessanti.
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