Architettura degli alberi e poetiche ardite: Cesare Leonardi

Vittorio Miranda

fonte immagine: www.universitaginzburg

Chi gli faceva visita nel suo laboratorio, seminascosto da una coltre di alberi e rampicanti alla
periferia ovest di Modena, s’immergeva di colpo in un mondo strabiliante. Scaffali ricolmi di libri, sculture movibili e variopinte, prototipi in vetroresina, plastici di architetture, tele dipinte,
composizioni fotografiche, poltroncine in legno su ruote dalle forme apparentemente bizzarre,
una diversa dall’altra. Di tutto, un’infinità.

Si parlerà quest’oggi di un’altra icona dell’architettura italiana, venuta a mancare lo scorso
febbraio. Parleremo oggi di Cesare Leonardi. Nato a Modena nel 1935, aveva trascorso l’infanzia a Vignola in una famiglia di artigiani. Dotato di particolare curiosità e talento per il disegno, la pittura e la fotografia, si era iscritto alla Facoltà di architettura di Firenze dove aveva studiato con importanti maestri tra cui Adalberto Libera e Leonardo Savioli. Il suo lavoro si afferma in ambito internazionale quando, ancora studente, disegna insieme alla collega e compagna Franca Stagi pezzi considerati oggi icone del design moderno, come le poltrone “Dondolo” e “Nastro”. 

Forme tanto poetiche quanto ardite per l’epoca, che grazie alla caparbietà dei due architetti e alla perizia di un abile artigiano locale avevano trovato concretezza. Il Salone del Mobile del 1968 le aveva portate all’attenzione internazionale, tanto che “Dondolo” divenne pochi anni dopo un emblema della celebrata mostra del MoMA a New York dal titolo “Italy. The New Domestic Landscape”, curata da Emilio Ambasz.

Per chi lo conosceva come designer, risultava spiazzante vedere il lavoro condotto parallelamente sugli alberi, che lo aveva spinto a viaggiare, studiare e ridisegnare le specie arboree per oltre vent’anni, fino alla pubblicazione, con Stagi, de L’architettura degli alberi, opera di riferimento per generazioni di studenti, architetti e paesaggisti. 
L’obiettivo era quello di dotarsi di uno strumento per la progettazione dei parchi, attività che caratterizza il lavoro dello studio Leonardi-Stagi.

Nei progetti realizzati, tra cui parco Amendola a Modena (1972-81), i centri nuoto di Vignola
(1973-82) e Mirandola (1973-80), e nelle tante architetture rimaste su carta emerge la volontà di definire un equilibrio tra uomo e natura e l’impegno per una città basata sulla presenza degli alberi intesa come espressione di valori sociali e politici. Una ricerca che lo porterà negli anni seguenti ad elaborare un metodo sistematico per la progettazione del verde e del territorio chiamato Struttura reticolare acentrata.
Poi l’attività di fotografo, che lo vede tra l’altro nel 1978 esporre insieme a Luigi Ghirri e Franco Fontana alla Galérie Olivetti di Parigi nella mostra”Trois artistes de l’ècole de Modène”, curata da Italo Zannier. Anche qui non mancano le imprese titaniche, come la ricognizione fotografica del Duomo di Modena. Oltre 5.000 scatti realizzati sulle impalcature in occasione del suo restauro che documentano, porzione per porzione e ad una distanza costante, uno dei monumenti a cui era più legato.

Entrare in contatto con Leonardi era per tanti una scoperta e un’esperienza difficile da dimenticare. Ma era altrettanto naturale chiedersi cosa ci facesse lì, rintanato, un architetto di tale caratura e con un lavoro così denso d’insegnamenti e implicazioni, anche rispetto all’attualità. È così che, insieme a Leonardi e all’architetto Giulio Orsini, una decina di anni fa è nata l’idea di riordinare i materiali e di dedicarsi alla divulgazione dei progetti conservati nella casa-studio. Nel 2010 è nata l’associazione Archivio Architetto Cesare Leonardi, fondata da un piccolo gruppo di collaboratori, famigliari e amici, cui ha fatto seguito la notifica dell’archivio quale bene culturale d’interesse pubblico e un’attività sistematica di catalogazione ad opera degli archivisti Francesco Samassa e Jessica Pagani. Nel 2017 l’Archivio ha curato insieme alla Galleria Civica di Modena la prima importante retrospettiva sul suo artefice, che ha permesso di guardare per la prima volta al suo lavoro non più in maniera frammentaria, ma come percorso progettuale unitario.


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