REACHING FOR THE STARS A FIRENZE
STORIA DI UNA COLLEZIONE D’ARTE CONTEMPORANEA
Ci sono due tipi di collezionisti d’arte. Da una parte quelli che vogliono avere le
opere solo a propria disposizione, goderne individualmente nelle loro abitazioni o, al
più, assieme a ospiti selezionati, rendendole anche un simbolo di prestigio e potere.
Dall’altra chi ritiene che, se le proprie disponibilità economiche consentono di
raccogliere opere importanti che incontrino la propria passione umana e culturale,
sia giusto porle a disposizione anche dello sguardo e del godimento di tutti. Di
questo ultimo tipo di collezionisti illuminati ce ne sono soprattutto nei paesi europei
e negli Stati Uniti e anche l’Italia ne può vantare. In particolare, per l’arte
contemporanea, Giuseppe Panza di Biumo è stato un faro. Grazie alle sue intuizioni
creò una raccolta prestigiosa, soprattutto di artisti americani della Pop Art, del
Minimalismo, della ricerca sulla luce, che volle condividere con chi l’arte amava.
Purtroppo la stupidità delle istituzioni culturali italiane fece sì che molti dei lavori più
importanti finissero nei musei americani, ma ci resta comunque la splendida villa
Panza Litta a Varese, ora gestita dal Fai, che conserva ancora splendidi lavori, spesso
creati appositamente per quegli spazi. Successivamente altri nostri connazionali
hanno scoperto come l’arte contemporanea possa essere una cosa bellissima ed
appassionante, perché ha a che fare con il nostro tempo, i nostri problemi e
sensibilità, dando anche la possibilità di conoscere e interagire con gli artisti. Tra
questi, la torinese Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, che trent’anni fa ha iniziato a
collezionare a partire dalla giovane arte inglese, ed ha poi avviato un progetto
articolato per avvicinare e coinvolgere sempre più persone, anche di concerto con
istituzioni pubbliche. Ha aperto una Fondazione, uno spazio espositivo a Torino,
ristrutturando un ex stabilimento industriale; nello splendido palazzo di famiglia a
Guarene, nel Monferrato, ospita giovani artisti e curatori e riserva parte dello spazio
a mostre internazionali. Nella collina di San Licerio, subito fuori Guarene, ha dato
vita a un parco d’arte, con installazioni di grande formato, che si possono ammirare
passeggiando attraversando vitigni di Nebbiolo e osservando un paesaggio
verdeggiante. L’ultimo spazio acquisito è l’isola di San Giacomo, nella laguna
veneziana, che ospiterà mostre e residenze artistiche. Al centro di tutte queste
attività la grande attenzione ai giovani, alle donne, alle tematiche ambientali,
realizzando progetti didattici e di sensibilizzazione attraverso l’arte contemporanea.
Negli anni la collezione si è accresciuta enormemente, riflettendo anche il mutare
degli interessi e sensibilità della signora Re Rebaudengo, ed è stata ospitata in
importanti sedi internazionali. Ora, giustamente, può celebrarne il trentennale in
una sede italiana prestigiosa come Palazzo Strozzi a Firenze, quasi a realizzare una
continuità con la grande arte del passato. Anche per questo la prima opera, nel
cortile, commissionata per l’occasione, è un grande missile ideato dal polacco
Goshka Macuga, che rappresenta il sogno di un nuovo Rinascimento che, grazie alla
scienza, aprirà all’umanità spazi oltre la sfera terrestre. L’opera appare imponente,
viene detto che, a parte l’assenza del motore, è del tutto realistica. Risulta però
inquietante: saranno i tempi ma più che a un razzo spaziale fa pensare a un missile
di guerra. La mostra si estende, poi, al piano nobile del palazzo, con otto sezioni
tematiche, e nello spazio sotterraneo della cosiddetta Strozzina, dove appaiono, per
lo più, opere video. Patrizia Sandretto Re Rebaudengo racconta che la sua passione
per il contemporaneo si accese a Londra, prima col lavoro dell’anglo indiano Anish
Kapoor e poi con i cosiddetti YBA (“Young British Artists”), che portarono un grande
spirito provocatorio, che culminò, nel 1997, con la mostra “Sensation”, alla Royal
Academy of Arts di Londra. Il più famoso è Damien Hirst, che presentò un grande
squalo, immerso in un bagno di formalina in teche trasparenti. Domina qui la prima
sala con un’altra riflessione sulla morte: un quadro di un azzurro smagliante, su cui
sono incollate farfalle multicolore, che ci fanno pensare all’ambiguità del rapporto
tra morte e bellezza. All’individuo intrappolato senza via di uscita fa riferimento
un’altra installazione, dove una struttura in vetro e metallo suggerisce un ufficio in
cui la sedia, incollata in alto, risulta inutilizzabile e la presenza umana, suggerita ma
non mostrata, determinerebbe una situazione angosciosa di trappola. Un’altra
artista britannica famosa presente nella prima sala è Sarah Lucas, che concentra la
sua attenzione sulla donna come oggetto, che offre scandalosamente i suoi organi
sessuali allo sguardo maschile. Nella seconda sala, dedicata alla materia, segnalo
l’opera effimera e poetica del filippino David Medalla, intitolata “Cloud Canions”:
dentro alcuni tubi trasparenti si forma una schiuma che col tempo sale ed esce dai
contenitori, creando una scultura che si va continuamente trasformando, fuggendo
dalla sua convenzionale staticità. La terza sala è, a mio avviso, assieme alla prima, la
più strutturata. E’ dedicata agli artisti italiani e introduce una piccola personale di
quella che è, attualmente, la nostra maggiore personalità: Maurizio Cattelan.
Cattelan spiazza, divide, scandalizza. Lascia sempre un senso di incertezza, sembra
superficiale, ambiguo ma fa trasparire temi profondi, tra ironia e malinconia. Una
grande foto documenta una performance del 1991, in cui fece allestire un biliardino
con undici manopole per lato, su cui si confrontarono giocatori del Cesena calcio
contro undici immigrati senegalesi, sulla cui maglia figurava, indicativamente, la
sponsorizzazione della ditta Rauss; un sacco contiene macerie del Padiglione d’Arte
contemporanea di Milano, distrutto nel 1993 da una bomba della mafia; lo stemma
delle brigate rosse diventa una stella cometa al neon o forse l’insegna di un bar;
nell’opera “La rivoluzione siamo noi” riprende una frase famosa dell’artista Joseph
Beuys, che, camminando, richiamava un impegno politico e sociale, ma che qui
illustra un manichino con le fattezze di Cattelan, con un abito alla Beuys, appeso in
una specie di attaccapanni, come a dire che la rivoluzione si è fermata, è finita in
naftalina. L’ultimo lavoro di Cattelan in mostra è la rappresentazione straniante di
uno scoiattolo riverso su un tavolino, suicida con un colpo di pistola. Un altro lavoro
famoso esposto in questa sezione, già presente alla Biennale di Venezia, è di Lara
Favaretto e consiste in cinque spazzole per autolavaggio di diverso colore che,
ruotando, si consumano: è un’opera che si impone come icona e, dato che emette
un forte flusso d’aria, diventa anche un pretesto di gioco per i bambini che vi si
avvicinano. Altra opera iconica, l’orso bianco fatto con piume di pulcino di Paola Pivi,
tra il tenero e l’inquietante. La mostra prosegue nelle altre sezioni perdendo un po’
di omogeneità e anche con qualche sbalzo nella qualità delle opere, pur
mantenendo picchi molto elevati e suggerendo varie considerazioni sull’attualità, la
presenza femminile sempre più frequente, un ritorno al figurativo o anche a forme
di astrazione che possono apparire un po’ fuori tempo. La sezione intitolata
“Identities” propone molte artiste tra cui l’americana Cindy Sherman, che si fa
fotografare assumendo ruoli che l’immaginario culturale maschile attribuisce alla
donna, mentre Barbara Kruger usa il linguaggio della cartellonistica pubblicitaria per
criticare stereotipi del consumismo e dell’immagine femminile. L’opera più forte di
questa sezione mi sembra quella dell’iraniana Shirin Neshat, che ha sempre indagato
la condizione femminile nel suo paese di origine: un filmato mostra una donna folle
che si aggira, senza velo, nelle strade e nella piazza di una città. La gente le si fa
attorno e si accende una discussione se la sua pazzia la esima dal coprirsi il capo. La
folla diventa sempre più pressante e minacciosa, finché la donna si allontana. Pur
non essendo recente, questo lavoro mostra tutta la sua dirompente attualità.
Un’altra opera estremamente attuale è, nella sezione “Places”, quella
dell’americano Josh Kline intitolata “Thank you for your years of service”: i corpi di
un uomo e una donna, ben vestiti, sono avvolti nel cellophane e abbandonati per
terra, evidentemente perché non più utili e quindi esclusi dal ciclo produttivo e
sociale. Si pensi al libro “Vite di scarto” di Zygmunt Bauman, e a come l’attuale
sistema consumi ed elimini in vario modo sempre più esseri umani che non sono o
non sono più funzionali. L’ultima opera, assai suggestiva, al piano nobile è
dell’inglese Ceryth Wyn Evans e si intitola “In girum imus nocte et consumimur igni”.
E’ una frase palindroma, che si può leggere sia da destra a sinistra che vice versa,
nata forse nel medio evo. Evans la riproduce in lettere al neon rosse, pendenti da
una specie di lampadario appeso al soffitto. Per leggerla bisogna girarci intorno, in
entrambe le direzioni, come le falene di notte girano intorno a una fonte di luce fino
a bruciarsi. Evans inizia a lavorare col cinema nella Londra punk degli anni ’80 e le
sue opere sono piene di riferimenti. Le falene possono ricordare le lucciole e queste
Pier Paolo Pasolini, al quale l’artista aveva dedicato un film girato sulla spiaggia di
Ostia dove fu assassinato. Ma la falena può anche essere il collezionista, bruciato dal
suo amore per l’arte. Alla Strozzina, al piano sotterraneo del palazzo, l’ultima
sezione presenta soprattutto opere di video arte, dove il rapporto con il cinema
diventa sempre più forte, come nel famoso lavoro di Douglas Gordon che, nel corso
di una partita di calcio, punta la cinepresa sul calciatore Zidane, seguendolo in tutti i
suoi movimenti, sia quando partecipa alle azioni che quando se ne astrae. Ne risulta
una narrazione straniante che cambia del tutto il modo di seguire la gara,
trasformando un momento tipicamente collettivo in qualcosa di individuale, quasi
una solitudine tra le folle di tifosi e giocatori. La videoinstallazione su tre canali di
Doug Aitken intitolata “Disgelo”, del 2001, voleva essere un inno alla vita che si
rinnova nel ciclo stagionale ma oggi forse ci ricorda lo scioglimento dei ghiacciai e il
mutamento climatico. Il sudafricano William Kentridge, utilizzando la sua abituale
tecnica dello stop motion, propone una storia animata incentrata sulla figura di un
avido magnate del suo paese, che è anche una discesa nel suo passato coloniale.
L’islandese Ragnar Kjartansson riprende temi del romanticismo nordico, nel
rapporto dell’uomo con una natura che lo sovrasta. Su cinque schermi trasmette le
immagini di concerti (è anche musicista) tenuti tra i ghiacci, in condizioni climatiche
estreme. Tra le opere non video alla Strozzina, una installazione della statunitense
Cady Noland, che usa oggetti di recupero per rappresentare una sorta di ranch in cui
l’apparente libertà dei cow boys cozza con il fatto di stare comunque dentro un
recinto chiuso agli estranei e dove si esercita violenza sugli animali. Infine il tedesco
Hans Peter Feldman ci immerge nella storia recentissima che però rischia di essere
dimenticata o travisata, tappezzando le pareti di una sala con le prime pagine con
cui i quotidiani di tutto il mondo danno notizia dell’attentato alle torri gemelle di
New York, l’11 settembre 2001, suscitando molti spunti di riflessione
sull’informazione al tempo della globalizzazione. Può anche capitare, sempre alla
Strozzina, di incrociare una ragazza in divisa da personale del museo che ci guardi e
canti (molto bene) brani di qualche canzone. Non è impazzita, è un’opera del
tedesco Tino Sehgal, che trasforma la visione convenzionale di un’opera in un
momento di coinvolgimento degli spettatori, una specie di work in progress
collettivo.
Sauro Sassi
REACHING FOR THE STARS
OPERE D’ARTE CONTEMPORANEA DELLA FONDAZIONE SANDRETTO RE
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