Martina Testa
fonte: pexels
Si può scrivere di tutto sul campo
della scuola e dell’educazione, la riflessione più ovvia, che
rischia di essere anche un po’ banale, è che la collettivitÃ
dovrebbe avere l’interesse precipuo di coltivare i sogni di
ciascuno, di alimentarli, di farsene carico all’interno di un
percorso formativo costante e pregnante per l’individuo.
Di
base, la scuola dà gli strumenti che, se supportati opportunamente
dal carico esperienziale ed emotivo di ciascuno, permettono di
demistificare le dinamiche di controllo e di assoggettamento
all’interno della società . Attraverso l’educazione, quindi, la
società si assume il rischio di procurare le armi che possono essere
usate contro se stessa, ma, allo stesso tempo, necessarie al percorso
di emancipazione della collettività stessa.
Tale
processo, problematico e non privo di ostacoli, viene oggi
banalizzato, demotivando gli attori in gioco. Nella scuola italiana
degli ultimi anni, infatti, i docenti, sottopagati, sottovalutati e
frustrati, sono funzionari proni di un sistema volto a fare degli
studenti degli individui-automi, infelici e altrettanto frustrati.
La
pervasiva rendicontazione burocratica all’interno della didattica
ha sostituito il processo di apprendimento e di formazione emotiva ed
educativa.
“Competenza”
è oramai diventato il termine più inflazionato, il paravento con
cui giustificare il processo di svuotamento di senso della scuola:
docenti e studenti sono sempre più analfabeti emotivi funzionali,
alfabetizzatissimi sulle nomenclature della civiltà del
postcapitale e incapaci di riconoscere anche le più basiche emozioni
primarie.
Tra
questi due di attori in gioco il rapporto non può che essere frutto
di un dialogo fra sordi, incapaci di reggere il confronto più
semplice e diretto.
È
chiaro, dunque, quanto questa automatizzazione del processo formativo
sia, di base, contraria alla natura della formazione stessa e ne è
una profonda privazione di senso.
Quella
sensazione di inadeguatezza che molti docenti provano è frutto
proprio di questo scarto, della contrapposizione fra realtÃ
contingente e piano “ideale”, che si basa sull’oggettiva
potenzialità del dialogo fra docente e studente, con la carica
dirompente che solo il processo formativo può innescare.
In
un contesto di burocratizzazione della professione degli insegnanti,
quel senso di inadeguatezza può diventare, quindi, l’arma
dirompente con cui opporsi a tale contesto, per preservare la propria
autenticità , la propria umanità .
È
necessario che tale consapevolezza venga affrontata in un’ ottica
di maggiore richiesta di formazione e di riconoscimento, che non sia,
però, frutto dei corsi di formazione proposti, funzionali a
mortificare le professionalità dei docenti, ridotti ad essere dei
funzionari proni al processo di automatizzazione, con la conseguente
deriva darwinista in cui gli altri sono solo un numero con cui
mettersi in competizione nel nome della “meritocrazia”, termine
odioso nella società analfabetizzamente classista in cui viviamo.
La
scuola, da luogo in cui innescare il dubbio, la crisi e la
problematicità , è diventata il campo democratico entro cui
discutere tali crisi, in una ricerca di senso e di significato,
sempre inappagata e aperta.
Si
può, quindi, concepire la scuola come una palestra democratica in
rovina che va de-costruita, attraverso un confronto scomodo e
diretto, affrontato anche con quel senso di inadeguatezza (e di
rifiuto) nei confronti degli automatismi burocratici, con tutto il
rischio e la sofferenza (consapevolezza) che questa ricerca comporta.
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