di Antonella Musiello
Nella eterea e sempre viva Capitale c’è sempre occasione di trovare la magia anche in una domenica uggiosa e cupa.
E così mi rifugio tra le mura del Vittoriano, mi catapulto fra i quadri di Gauguin e incomincio a sognare. Anche lui, affascinato e ispirato come me e come tanti artisti tra ‘800 e ‘900 dal coinvolgente incanto dell’Oriente. I favolosi tramonti dell’isola di Tahiti come la voglia di rifugiarsi in un altro posto e il desiderio di trovare una pace lontana dalle metropoli è un sentimento comune alla mia generazione.
L’arte orientale da anni fonte d’ispirazione, è rimasta fin troppo etichettata alla staticità, alla freddezza, ad ideogrammi, stilizzazioni e porcellanee.
Oriente, da orientamento, l’idea di oriente come punto d’equilibrio e di riferimento non può essere catalogata in pochi e frammentari archetipi.
La terra del Sol Levante non è solo punto d’incontro fra occhi a mandorla e “piccolezza tecnologica”, è anche accuratezza di dettagli, tradizione, colori ed eleganza.
Il suo opposto: l’occidente, che tanto opposto poi non è. Mi viene in mente il teatro, i musical americani e il kabuki giapponese. Due grandi potenze mondiali così lontane e nel contempo così vicine.
Se il mio musical preferito è “The Wiz. I’m magic” di Joel Schumacher (1978) e mi diverto ad ideare allestimenti scenografici e costumi stile giapponese, ci sarà pur un motivo. Hanno in comune la voglia di creare e di ricreare, di proporre e di riproporre, tra megalomania e modestia. Le opposizioni sicuramente ci sono rispetto al modo di fare di un vuoto la possibilità di riempirlo come in Giappone, a differenza del distruggere completamente e rendere vuoto il pieno, come accade in America. Ma questo è un modo per polemicizzare e politicizzare un pensiero.
In “The Wiz” mi colpisce il ritmo, i colori accesi, l’originalità nel raccontare una favola tradizionale rendendola eterna. Nel teatro Kabuki mi colpisce l’attenzione ai particolari e alla spettacolarizzazione di una consuetudine intramonatabile.
Insomma favola, leggenda, spettacolo, contaminazioni, credo siano i presupposti per continuare a sognare.
Sognerebbero sicuramente gli amanti delle atmosfere orientali entrando a visitare la mostra “Capolavori della città proibita” allestita al museo del corso di Roma. Dipinti che raffigurano riti, cerimonie, scene di vita quotidiana della corte imperiale sotto Quin Long, ma anche armi, utensili, abiti di corte, gioielli, ceramiche. Testimonianza di raffinatezza e pregio.
Questo ci ricorda che il vero “american dream” si evolve e si riverbera nelle piccle cose che fanno l’Arte sempre più grande.
Nella eterea e sempre viva Capitale c’è sempre occasione di trovare la magia anche in una domenica uggiosa e cupa.
E così mi rifugio tra le mura del Vittoriano, mi catapulto fra i quadri di Gauguin e incomincio a sognare. Anche lui, affascinato e ispirato come me e come tanti artisti tra ‘800 e ‘900 dal coinvolgente incanto dell’Oriente. I favolosi tramonti dell’isola di Tahiti come la voglia di rifugiarsi in un altro posto e il desiderio di trovare una pace lontana dalle metropoli è un sentimento comune alla mia generazione.
L’arte orientale da anni fonte d’ispirazione, è rimasta fin troppo etichettata alla staticità, alla freddezza, ad ideogrammi, stilizzazioni e porcellanee.
Oriente, da orientamento, l’idea di oriente come punto d’equilibrio e di riferimento non può essere catalogata in pochi e frammentari archetipi.
La terra del Sol Levante non è solo punto d’incontro fra occhi a mandorla e “piccolezza tecnologica”, è anche accuratezza di dettagli, tradizione, colori ed eleganza.
Il suo opposto: l’occidente, che tanto opposto poi non è. Mi viene in mente il teatro, i musical americani e il kabuki giapponese. Due grandi potenze mondiali così lontane e nel contempo così vicine.
Se il mio musical preferito è “The Wiz. I’m magic” di Joel Schumacher (1978) e mi diverto ad ideare allestimenti scenografici e costumi stile giapponese, ci sarà pur un motivo. Hanno in comune la voglia di creare e di ricreare, di proporre e di riproporre, tra megalomania e modestia. Le opposizioni sicuramente ci sono rispetto al modo di fare di un vuoto la possibilità di riempirlo come in Giappone, a differenza del distruggere completamente e rendere vuoto il pieno, come accade in America. Ma questo è un modo per polemicizzare e politicizzare un pensiero.
In “The Wiz” mi colpisce il ritmo, i colori accesi, l’originalità nel raccontare una favola tradizionale rendendola eterna. Nel teatro Kabuki mi colpisce l’attenzione ai particolari e alla spettacolarizzazione di una consuetudine intramonatabile.
Insomma favola, leggenda, spettacolo, contaminazioni, credo siano i presupposti per continuare a sognare.
Sognerebbero sicuramente gli amanti delle atmosfere orientali entrando a visitare la mostra “Capolavori della città proibita” allestita al museo del corso di Roma. Dipinti che raffigurano riti, cerimonie, scene di vita quotidiana della corte imperiale sotto Quin Long, ma anche armi, utensili, abiti di corte, gioielli, ceramiche. Testimonianza di raffinatezza e pregio.
Questo ci ricorda che il vero “american dream” si evolve e si riverbera nelle piccle cose che fanno l’Arte sempre più grande.
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