di Giuseppe Gavazza
Ho speso le ultime due settimane a Berlino, tra le altre cose, in cerca di occasioni d'ascolto. Ho ascoltato un'orchestra straordinaria, i Berliner Philhamoniker in Elias op.70 di Mendelssohn: grande orchestra, organo, coro e 10 voci soliste solisti, tre ore di oratorio - di rara esecuzione - dirette a memoria dal piccolo grande Seiji Ozawa, 74 anni, folta chioma grigia ed energia adrenalinica sul podio della Philharmonie, la mitica grande sala di concerti.
Mitica perché - progettata da Hans Scharoun nel 1956 - da controversa vincitrice di un concorso pubblico é divenuta punto di riferimento per l'architettura delle sale da concerto, per eccellenza acustica ed originalità: la struttura (illustrata dal logo: tre diversi pentagrammi concentrici disassati e diversamente ruotati) mette il palco al centro; il pubblico è tutto attorno, ogni settore ha una propria prospettiva visiva e acustica ottima ma diversa, compresi i posti laterali e posteriori che consentono di vedere il direttore non solo di spalle (consueto ma poco interessante e in fondo, se ci pensate, anche un poco avvilente per il pubblico) ma di lato e di fronte in un punto d'ascolto (e di vista) vicino a quelli degli orchestrali, di chi i suoni li produce oltre che ascoltarli. Una prospettiva che ha anticipato la fruizione di concerti su home-video.
Mitica personalmente perché, in una prospettiva più intima, se il mio primo interesse per la musica (da cui poi è nata la passione, lo studio e la ragione di vita di fare il musicista) si può collegare con delle immagini quelle immagini forse sono proprio le foto di copertina e del libretto del cofanetto Deutsche Grammophon delle Nove Sinfonie di Beethoven eseguite dai Berliner Philharmoniker diretti da Herbert von Karajan: il direttore che ha fatto il mito non solo di quest'orchestra ma anche di questa sala. Il suono di quelle registrazioni era anche il suono di quello spazio che, conosciuto nelle immagini del cofanetto di dischi (33 giri di vinile, eravamo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta) ho fotografato con la memoria e non più rimosso come archetipo di spazio per la musica sinfonica. Credo che Karajan sia stato il primo direttore ad aver capito l'importanza della registrazione, ad aver deciso che il disco non era solo la testimonianza di un evento ma un prodotto d'arte e di commercio autonomo.
Il primo direttore che ha speso altrettante e forse più ore in studio che in sala prove; non solo con gli orchestrali ma con altri professionisti del suono, i Tonmeister (traduzione insoddisfacente: ingegneri del suono) a lavorare con scrupolo e orecchio finissimo per il missaggio finale, considerando l'editing come un'altra, altrettanto importante, fase di concertazione, direzione, interpretazione. Giorni spesi ad ascoltare le decine di traccie audio registrate: ognuna un orecchio (i tanti microfoni messi vicino ad ogni strumento), ogni orecchio uno strumento, per fare - in definitiva - il lavoro inverso a quello del compositore che scrivendo una partitura dona forma ad un suono pensato, compila una traccia a più canali, un pentagramma per ogni strumento. Se poi ogni strumento ha il suo microfono, editare il missaggio definitivo da mandare sui due canali dello stereo è rifare il percorso inverso, dai tanti strumenti al cervello del pubblico che ascolta attraverso due orecchie. (E pensare che Beethoven negli ultimi anni era sordo!)
Lo spazio della musica diventa in certi casi oltre che uno spazio acustico anche uno spazio visivo, evocativo, narrativo, emotivo.
Ho ripensato ai tanti microfoni come orecchie immerse in un'orchestra di suoni in merito alla grandiosa, impressionante installazione The murder of the crows di Janet Cardiff e Georges Bures Miller. Uno spazio vuoto e grandissimo, la Nationalgalerie im Hamburgerbanhof, sempre a Berlino, un impianto audio che gestiva una partitura di 98 parti reali inviate su 98 diffusori hi-fi dislocati nella spazio secondo una architettura precisa voluta dagli autori: appesi in aria, su aste ad altezza d'orecchio, su sedie tra altre sedie lasciate vuote per il pubblico. Un altoparlante solista, in forma di corno, appoggiato ad un tavolo al centro dell'anfiteatro di sedie. La forma dello spazio musicale è classica: un punto focale centrale (il podio-tavolo con l'altoparlante-corno-voce solista-magica cornucopia) i suoni tutto attorno e qui, di più ancora che nella Berlin Philharmonie, il pubblico che camminando o sedendo su una delle sedie, sceglie una prospettiva d'ascolto dinamica tra le infinite possibili. Anche la durata è anche quella di una sinfonia classica: 30 minuti.
La forma è in tre movimenti, con storie raccontate in forma di sogni; un poema sinfonico o un oratorio con una voce narrante, una voce solista che canta, suoni registrati dal vivo, un coro (il Mottetto del compositore Cinquecentesco Thomas Tallis già usato da Cardiff e Bures Miller in Forty-Part Motet del 2001, 40 voci diffuse da 40 altoparlanti disposti ad ellisse), un banda ed con coro militari (anche questi registrati con un esercito di microfoni, uno per ogni strumento) in mezzo a cui possiamo camminare per ascoltare da vicino quello che suona la tromba, il clarinetto, il trombone, le percussioni, ognuno chiuso nella scatola nera del “suo” diffusore acustico. Uno spazio d'ascolto da vedere, da percorrer, da ascoltare in prospettive diverse da cercare, ricordare, confrontare.
Nel bel mezzo di questa rappresentazione ho pensato al Grand Opera, Hollywood musicale dell'Ottocento; quando, finito lo spettacolo, ci si chiede se a stupire sia la grandezza dei mezzi messi a disposizione o la grandezza del pensiero artistico; se, in una Grande Opera, grandi siano i mezzi utilizzati o sia grande l'artista che li utilizza.
Un secolo fa hanno coesistito non lontano da qui, due geni come Anton Webern e Gustav Mahler: tutto il mondo in un gesto il primo, (l'opera omnia sta in due CD), una sinfonia deve essere un mondo il secondo (qualche sua sinfonia non sta su un solo CD). Due universi poetici ed estetici lontanissimi in due grandissimi compositori.
Dal sipario rosso messo d'ingresso alla sala grande della Hamburgerbanhof sono uscito come spettatore stupito ed emozionato e come musicista mi chiedevo: se avessi a disposizione una sala così + credo 150.000 Eu di attrezzature audio a disposizione + carta bianca e tempo per progettare e lavorare = forse anche io saprei stupire il mondo. Chissà.
Lo spazio della musica è stato anche un concerto da camera alla Mendelssohn Remise, in un antico palazzo vicino alla centralissima Friedrichstrasse, a pochi passe dallo Staatstheather e dalla Konzerthaus. Non una sala da concerto ma un elegante grande salone di abitazione, frequentato da altrettanto eleganti ascoltatrici e ascoltatori, nella casa dove visse Mendelssohn, la stessa casa dove al primo piano, mi spiegava uno degli ascoltatori eleganti, ha vissuto Clara Schumann. Uno spazio storico, affettivo, psichicamente impregnato di rimembranze.
Un giovane eccellente quartetto d'archi con un programma che comprendeva, oltre un quartetto di Mendelssohn, due brani scritti nei primi anni '40 da compositori detenuti e morti nel campo di Theresienstadt: la stazione da cui partivano i treni che deportavano a Theresienstadt era poco lontano da qui. Dov'era la stazione ora si vede una facciata in parte ricostruita, una parete isolata e “inutile” davanti ad un grande prato, messa a memoria di un orrore.
Il suono era speciale, non tanto per una realtà acustica, ma per una realtà percettiva in cui si articolavano suoni, musica, storie, storia, colori, odori, suggestioni, memorie, emozioni.
Lo spazio della musica, del suono è stato anche uno spazio che mi aspettavo straordinario: Singhur Hoergalerie, (letteralmente Galleria d'ascolto dell'orologio che canta), architettura industriale di depositi d'acqua, uno spazio speciale dedicato alla Sound-art nel centro di Berlino che dal 1996 ad oggi è diventato punto di riferimento per le installazioni d'arte che usano il suono; una cinquantina di mostre con gli artisti di riferimento di questo altro modo di fare musica, arte dei suoni con tempi e spazi differenti dal concetto classico del concerto.
Uno spazio atteso che è rimasto tale: l'inaugurazione della stagione, con i nuovi lavori di Stefan Rummel, Terry Fox e Arnold Dreyblatt era il 21 maggio, due giorni dopo la mia partenza. E' rimasto uno spazio immaginato e atteso, ottima ragione per tornare per poterne scrivere, a ragione ascoltata.
إرسال تعليق