Le luci che pungono in Tutta una vita da vivere

LE LUCI CHE PUNGONO
di Arianna Marzotto


Scese faticosamente dal taxi, dove si era assopita.

Il sole le fece chiudere gli occhi ridotti due fessure grigie e viola. La facciata principale della clinica era di un bianco accecante, quasi osceno e si può immaginare mentre sorride tronfio: State tranquilli, parenti dei malati: da questo Alcatraz a cinque stelle non uscirà nessuno a turbare il vostro normale quieto vivere.
Ema si sentiva agitata, come ogni volta che andava a trovare Clelia, sua sorella minore.

Indugiando sulla soglia pensava a Clelia bambina: non piangeva quasi mai, era di poche parole e la sua presenza si avvertiva appena. Aveva le sembianze di un piccolo elfo femmina, ed era così silenziosa che quando meno te lo aspettavi, sbucava come apparsa in quel momento, e non si capiva proprio da dove fosse sbucata.

Invero era dotata di un notevole senso dell'umorismo e fin da piccolissima trovava il lato buffo di ogni cosa. I genitori, già anziani quando Clelia era venuta al mondo, guardarono a quell'eterna bambina con occhi protettivi e preoccupati nemmeno fossero stati consapevoli del morbo che le pendeva sulla testolina di neonata pacifica. Peccarono sempre di invadenza e eccessiva premura nei suoi confronti mentre lei, di tutta risposta, andava facendo suo un profondo senso di indipendenza e voglia di isolarsi come se fosse del tutto autosufficiente già all'età di tre anni.

Clelia ventenne ebbe le sue prime visioni terrificanti e con quelle era apparsa anche La Voce e naturalmente le luci “cattive”. Ema, che abitava lontano dalla casa dei genitori e della sorella, rimase stupita quando il padre le raccontò piangendo che ella aveva smesso di mangiare e se veniva convinta a farlo, subito dopo i suoi occhi diventavano come velati e i genitori assistevano disperati come spettatori dell'incubo di qualcun altro a dialoghi tra lei e la Voce. La Voce le ordinava di osservare il digiuno oppure le Luci Bianche l'avrebbero torturata. Durante queste “torture” la ragazza si contorceva in smorfie di dolore e terrore come se la spellassero viva. Le fu diagnosticata una forma avanzata di schizofrenia e il ricovero immediato oppure la giovane avrebbe rischiato di morire di fame.

Quando la vide, nel lettino bianco sembrava più che mai la bambina che era stata, il piccolo elfo ma l'antico sguardo attento e vispo era stato sostituito da una patina di rassegnazione. Era così magra che spariva nella camicia da notte a aveva perso quasi tutti i capelli che, comunque, si era già rasata da sé. Vedendo la sorella si animò un poco, ma subito si riaccasciò nel groviglio delle lenzuola. L'infermiera spiegò che le era da poco stato praticato l'elettroshock dal momento che, nonostante i farmaci, aveva avuto un'altra crisi, dovuta probabilmente all'alimentazione forzata.

Ema accarezzò la testolina spelacchiata e calda e cominciò a parlarle lentamente, senza prendere fiato, e senza smettere di accarezzarla.

Ti ricordi? Sei sempre stata pestifera: una voltami hai nascosto una lucertola nell'armadio e quella volta che sei caduta dal ciliegio così leggera che sei volata a terra come un gatto... povera gattina nostra, ti adorava così tanto che si faceva fare tutto da te... la vestivi come un bambino e te la portavi in giro in carrozzina avendone la massima cura che può avere una mamma. La mamma: tu l'hai vista sempre vecchia e stanca, ma è stata anche giovane sai? Quando ero piccola me la ricordo bellissima ma forse per i bambini le mamme son sempre esempio di bellezza. Sempre nervosa, me la ricordo, con le mani lunghe e le gambe lunghe mi trascinava con lei in giro e le chiedevo mamma perché gli uomini ti guardano? Quando era incinta di te sembrava già una vecchia, concentrando tutte le sue energie sulla casa e lamentandosi continuamente della sua bellezza perduta. Tu sei cresciuta tra adulti, ecco perché sei stata sempre una bimba solitaria: con i coetanei sei sempre stata molto timida, mentre già a dodici anni intavolavi conversazioni letterarie con gli amici di mamma e papà. Clelia dovrei esserti stata più vicina, ma la tua malattia mi spaventa sono una vigliacca.

Ema si rese conto che stava piangendo e al posto di accarezzarla stava strattonando la sorella con una violenza tenera. L'infermiera la fermò e stizzita le ricordò che i pazienti avevano bisogno soprattutto di calma e affatto di essere importunati. Allora successe l'impensabile: Ema scoppiò a ridere in faccia all'infermiera, lei che era stata sempre così composta! Come per giustificarsi disse che le causava ilarità il termine da lei usato “importunati”. Dato l'infermiera non ci trovava niente di buffo, Ema continuò affermando che siccome Clelia aveva la fissa delle parole e ne aveva in odio alcune, e una di queste era proprio “importunare” si era detta che la sorella certamente si sarebbe imbestialita a udire quel termine e senz'altro avrebbe riso lei in faccia all'infermiera. La malcapitata ritirò bofonchiando e quando le donne rimasero sole Clelia disse: "Sei tu la matta. Cosa ci faccio io qui? Vedi Ema, tu hai appena dimostrato che non sei vecchia: sei stata irrazionale per un attimo e per un attimo ti sei abbandonata alla leggerezza di quando si è piccoli. Io ho sorpassato un confine, Ema, oltre il quale c'è solo sofferenza ed estrema consapevolezza del nulla che siamo. Ho cercato di lottare contro le Luci che mi ferivano ma quando davo retta alla Voce ho assaporato il Paradiso. So che credi che io sia matta, ma se ho cercato di non mangiare per avere visioni è solo perché non avevo niente da perdere: volevo votare la mia vita alla consapevolezza, e se mi lasciano in pace potrò seguire la Voce e uscire da quest'inferno. Io voglio morire Ema, e nessuno potrà fermarmi, nemmeno tu".

Così dicendo andava stancandosi e forse per effetto dei sedativi di colpo si addormentò.
Ema la baciò e uscì dalla stanza.
Ema sorridendo andò in un negozio a comprarsi vestiti vistosi e colorati, che proprio non era da lei.




3 Commenti

  1. Interessante il tema, che emerge bene nel racconto, della sofferenza nella malattia, e soprattutto in un certo tipo di malattia, come quella che tormenta il personaggio del racconto, Clelia. Una sofferenza che è, oltre che dolore fisico, sopratutto sofferenza "dell'anima".
    Eli

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  2. dovremmo essere costruttiviste... ma non ci riusciamo
    perché????

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  3. Io mi sento più decostruzionista...

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