controleore

Natty Patanè
un racconto di Maria Giovanna Bolognini



Ma il tempo, il tempo chi me lo rende? Chi mi dà indietro quelle stagioni
di vetro e sabbia, chi mi riprende la rabbia e il gesto, donne e canzoni,
gli amici persi, i libri mangiati, la gioia piana degli appetiti,
l'arsura sana degli assetati, la fede cieca in poveri miti?
(“Lettera”, Francesco Guccini)



Oggi un sole alieno e che sia fine marzo pare un incidente in un cielo di latte sporco. Fa freddo e penso all'estate come a uno stato lontano. Gerry passa a prendermi e andiamo. Sappiamo dove, non bene come, né se abbia un senso. Via D'Alò Alfieri è familiare in maniera dannata perchè là ancora ci cammina la me di vent'anni e passa fa. Ed era meglio. Non so fare da navigatore, però, e allora parliamo di cose. Più che altro frasi spezzate a contorno del pensiero di come andrà tra poco.
Più che altro, veramente, penso.
A un sacco di cose in un ciclo randomico, qualcosa me lo tengo, qualcosa lo respingo. Dico a Gerry di questo gioco strano che faccio da sola. Cammino a Taranto e conosco tutto e poi di colpo mi invento che mi perdo. Che non so dove sto. E ci riesco, mi convinco, mi guardo intorno e le case non le riconosco più. Vedo dettagli nuovi, nuove prospettive. Un angolo di strada comparso dal niente e svolto. Taranto, dopo, è ancora più mia. Io sono diversa. Gerry pensa che sia folle, lo sento. Io sento che Gerry è una roccia di granito superiore.

Arriviamo. Io sono fuori dalla mia zona di comfort. Non conosco niente. Sbagliamo strada. E' il cancello della Edison, cazzo. Indietro e a sinistra, ok. Gerry dice ciao a un signore con lo sguardo buono e triste. Come va, qua? Bah. Sempre peggio. Io penso che non so dove stiamo e che quella strada l'ho fatta solo di notte e un'altra volta non sapevo dove andavo e soprattutto perchè ci stavo. Giriamo, svoltiamo, evitiamo un camioncino e penso che meno male che non stiamo nella macchina che Gerry guidava a Milano.

Arriviamo. Stavolta davvero.

Ilva. Cambio turno. Portineria D. Enorme.

Parcheggio macchine. Enorme. Muri e muri e cancelli e cancelli. Enorme.
E' l'unica cosa che riesco a pensare.
Enorme.
E penso anche
Grigio.
Puzza.
Alba del giorno dopo.

Una voce al microfono. Un ambulante. Vende spugne ultrassorbenti. Non capisco. Due ragazzi, tre. Stanno uscendo. Ehi, ti posso lasciare un volantino? Il ragazzo guarda Gerry per una frazione di secondo. Il tempo di cedere al sorriso disarmante. Prende. Dice una cosa che non capisco bene. Paura che sia roba dei sindacati. Paura di restare a casa. Dice qualcosa del genere.

Avanti. Auto che pare un mare. Colore piombo a strafottere. Gente, sempre più. Ci dividiamo i settori. Due bambini in una foresta nera; ecco che siamo, penso. Vedo Gerry dritto ai suoi obiettivi. Io vado a colpire i miei. Mesi di volantinaggio mi hanno temprata ai no, non m'interessa, chi ti paga, lasciatemi stare, andate a lavorare. Ma qua succede che arrivano in gruppi, mi pigliano i volantini dalle mani. Chi siete che fate cos'è quand'è ci mando i colleghi che non hanno il turno. Ok, dico io. E intanto mi sono persa Gerry. Sono in mezzo a un centinaio di ragazzi e mi guardano perchè sono un elemento insolito del paesaggio, mi fissano proprio e io anche li fisso e vedo che sono piccoli, sono belli, sono stanchi. Gerry dove diavolo sei.

E ora come dentro un quadro espressionista.

Gerry vicino a una bancarella. Davanti alla portineria D non solo auto e passi stanchi che si trascinano. Siamo in un suck. Bagnoschiuma calzini borse militari chiosco di caffè panini birra come quelli che trovi fuori ai concerti nei parchi a Torino e Milano e ovunque, credo. Odore di mare. Vendono cozze.

Mi avvicino a Gerry-zona-di-comfort. Sta parlando con un ragazzo e un bambino. Hanno una bancarella dove vendono di tutto. Gerry si gratta il naso e io no e credo sia perchè fumo troppo e allora non sento bene gli odori. C'è puzza in maniera importante. Io mi chiedo se è verosimile che le facce stravolte che vedo intorno abbiano la voglia allo stacco del turno di stare ancora a pigliarsi il Clèo yogurt e cocco o i calzini a righe colorati o le cozze al sapore di ferro. Il ragazzo ha una tuta e un cappuccio sui capelli castani e la pelle dorata di inizio estate. L'estate dei ragazzi tarantini comincia a fine maggio e a ottobre ancora non sa che fare di sé. Gerry s'informa su come funziona 'sta storia delle bancarelle e se possono stare o se gli rompono le palle e lui sorride un sorriso bianco e perfetto e credo che veramente il destino di un uomo lo fa il posto in cui nasce e la capacità individuale è un elemento marginale. Sorride e dice che lì è meglio di un mercato. Che c'è meno concorrenza e che non devi pagare il suolo pubblico e solo a volte i poliziotti gli fanno capire che là non ci può stare; poi prendono un detergente intimo, un dentifricio e chiedono quanto viene. Uno sguardo incrociato salda il conto. Il ragazzo racconta e abbassa gli occhi. Suo fratello lavora dentro. Lui, almeno, sta là solo ai cambi turno. Dice “almeno” come una fortuna di cui non ha merito. Come una grazia divina. Il ragazzo è bello che pare un fiore nel deserto.

Il ragazzo-fiore grida “oh, ce ste fasc'” perchè lui ha preso un deodorante spray e se lo spruzza sulla maglietta grigia infilata nei pantaloni della tuta troppo larga e troppo corta. Lui è magro di una magrezza ragazzina. Scuro, scurissimo. Una cicatrice gli attraversa per intero la gola.

Lui non ha i denti.

Gerry glielo dice, gli dice “e i denti?” e mentre lo fa io penso “no no no non dirlo” e invece lo dice e lui si toglie il sorriso e parla con gli occhi. Eh, frat' mije. Radio e chemio e corridoi di ospedali e Milano, era a Milano che mi hanno operato e no, non so il nome del posto, era un boh, paese, era Cesano Maderno, sì, e lo dice che si vede che parla di un mondo alieno lontano e buio dove è stato catapultato insieme a sassi di ingiustizia estrema e rassegnazione. E' la vita. E' la morte.

“Oh, 'e vist' a Renat'?” Chiede lui al ragazzo-fiore. “Quidd' ca' venn' l' giocattol'”. “Beh?” “Ten' na' cos', aqqua'”. E mima un bozzo all'altezza della gola, di lato. “L'onn ditt' ca' è benign”.
Silenzio.
“Pur'ammè l'aver'n' ditt'...”.

Silenzio.

Gli occhi scartano di lato mentre lui pensa a chissaccosa e io sono stordita. E poi mi punta in faccia gli spilli degli occhi. E dice. “Ho due bambine. 4 e 7 anni”. Si scontra con il mio sguardo sorpreso e mi risponde senza domanda. “Ho 51 anni”. Ne dimostra 70. “Ho sempre fatto il contrabbandiere, poi ho avuto il cancro. Avevo la pensione d'invalidità, me l'hanno tolta”. “Perchè?”, faccio io. “C'è stato l'intervento e quindi tutt'apposto”. “Ma la gola”, faccio. “I denti”, faccio. “Mi hanno dato il 70% d'invalidità. Per la pensione ci vuole il 73, il 74. Ora sto in causa. Mi hanno bruciato da qui a qui”, e disegna un quadrato che va dal mento a metà torace. “Se vinco, me li faccio, i denti”.

[...]

“Non riesco a ingoiare, ora. Quando mangiamo le bambine hanno paura. Mi affogo sempre. Le bambine scappano. Speriamo che vinco così mi faccio i denti”.

[...]

Non so che dire. Non c'è niente da dire. Fa più freddo.

Il ragazzo-fiore dice “Lui è molto, molto forte”. Lui dice “Le mie bambine sono la mia forza”.

Andiamo, penso. Andiamo, dice Gerry. Gli ambulanti stanno smantellando. Il turno successivo sarà alle nove. Inutile stare là.

“Vado pure io”, dice lui. “Mi sveglio ogni mattina alle cinque e vengo qua. La sera spengo la televisione alle nove, nove e mezza, è importante riposare. Ma ora non vado a dormire, seee... Vado a casa, mi cambio e scendo in strada. Mi piace che sto con la gente. Se non stai con la gente sei morto.”

Dietro e intorno a noi cammina storto Lollò. Gli danno un euro a testa, gli ambulanti. E lui fa il monnezzaro del suck. Lollò mi guarda e mi fa un sorriso furbo. Io ricambio fingendo un'intesa che non capisco, solo perchè ho voglia di pensare che dietro tutto questo c'è una logica e io la sto capendo.

E dove abiti, fa Gerry.

Ai Tamburi.

'Fanculo, penso. Non se ne esce.

Bastardi ladri-iene di denti e di padri di bambine di 4 e 7 anni.

E poi penso che vorrei avere solo le briciole di questo ostinato

Come vedi tutto è usuale, solo che il tempo stringe la borsa

e felice
e c'è il sospetto che sia triviale l'affanno e l'ansimo dopo una corsa,

e spossante
l'ansia volgare del giorno dopo, la fine triste della partita,

amore per

il lento scorrere senza uno scopo
di questa cosa
che chiami

vita.

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