Matteo e le lacrime cattive

Natty Patanè


Vortici di rabbia, rapidi movimenti. La serenità vive sotto rocce cocenti

Lo sguardo si posò sul pavimento, una scarpa rovesciata, l’altra accoglieva un calzino, sulla sedia vestiti, le gambe striate dalla luce che filtrava dalla tapparella semichiusa. Matteo si passò le mani tra i ricci scuri che gli penzolavano sulle guance lisce. Ripensò alla sera prima e sentì una rabbia forte invaderlo, era come se qualcosa di infuocato gli si fosse conficcato tra le braccia.
Si alzò e si scaraventò dentro il suo costume, in pochi istanti si ritrovò a lottare con i pedali del suo motorino che non ne voleva proprio sapere di partire. Imprecò con tutte la male parole che i suoi pochi anni in strada gli avevano insegnato e gli sembrò che più del suo piede che spingeva forte, fossero i suoi vaffanculo ad accendere il “boxer” blu.
L’asciugamano sul sellino, si fiondò sulla provinciale a rincorrere l’idea di un mare che potesse acquietarlo e lavare via l’ansia e la rabbia.
Mentre il vento gli sollevava la canotta verde e i pantaloncini bianchi, ripensava alla sera prima chiedendosi perché si sentiva tanto agitato, non era certo perché lo avevano chiamato figlio di puttana, anzi, la cosa quasi lo inorgogliva, ci si sentiva proprio, si calava nella parte del cattivo ed egoista quasi fosse un premio alla carriera di inquieto.
All’arrivo alla scogliera si rese conto di aver guidato per tutto il tempo con la mano stretta sull’acceleratore, tanto che gli faceva quasi male. Si arrampicò in fretta tra gli scogli scuri fino ad uno spuntone solitario da cui tuffarsi, tolse gli indumenti e si lanciò incurante giù dai sei, sette metri che lo separavano dall’acqua chiudendo gli occhi e raggomitolandosi le gambe tra le braccia, quasi pregustando la sensazione di soffocamento che lo avrebbe colto sott’acqua. In fretta mirò la luce filtrata dalle increspature delle onde recuperando contemporaneamente il costume che gli era scivolato alle ginocchia.
Una volta in superficie si stese a braccia larghe socchiudendo gli occhi.
Ritmicamente l’acqua gli chiudeva le orecchie ovattando le lontane grida di bimbi allegri e i richiami delle mamme infastidite. Ripensò al volto terrorizzato di Laura e Valentina, al rivolo di sangue che scendeva dal naso di Luca che con gli occhi inumiditi e stupiti gli sussurrava:

- figlio di puttana, sei solo un figlio di puttana!
Come non gli accadeva da tempo sentì prepotente la voglia di piangere e fu stupidamente contento di poter camuffare le sue eventuali lacrime tra lo sciabordio del mare, come se fosse circondato da spettatori incuriositi.
Ancora grondante si rimise sul motorino e ritornò verso il paese, tirando così tanto che gli sembrò di sentire il motore implorare pietà tra un borbottio e l’altro.
I portici della piazza erano illuminati dal sole impietoso, deserto. Fece un po’ di slalom tra le colonne che tanto nel vuoto del paese non si sarebbe certo materializzato un vigile per fargli una multa, poi si fermò e guardò a lungo il selciato quasi a cercare qualche goccia di rabbia che fosse magari fuoriuscita dal naso di Luca insieme al sangue.
Scalciò con violenza una lattina vuota che andò rimbalzando per qualche istante ferendo il silenzio del mezzogiorno estivo.

- Perché?
Aveva detto con un filo di voce Laura e gli sembrò che quella parola avesse cancellato tutte le altre, che avesse risucchiato ogni termine in un vortice insulso di rabbia immotivata.
A casa nessuna variazione al tema silenzioso del paese.
Caricò sulla radio gli Stones e mentre Jagger urlava You can’t always get what you want si lasciò ripulire dal getto gelido della doccia.
Qualche ora dopo, lasciata l’ennesima corsa in motorino, si ritrovò disteso sotto un albero di gelsi.
La campagna intorno era tutto un frinire di cicale e mentre si riparava gli occhi con la mano ricordò “U Niuru”, lo strano vicino che per anni aveva abitato due porte più in là della sua, gli sembrò di rivedere le rughe su quel viso bruciacchiato dal sole, una ad una, la sua camminata lenta e i gesti strambi che gli vedeva fare. Risentì i commenti quasi impauriti della gente che lo vedeva in bilico tra follia ed estrema saggezza, ricordò i sorrisi dolci che gli faceva e di quella volta che gli aveva insegnato a costruirsi una fionda. A lui non aveva mai fatto paura.
D’improvviso si accorse di sorridere, si sollevò, con la mano si ripulì dall’erba sui vestiti, con delicatezza, quasi ad accarezzarsi, e fu pronto ad avviarsi verso casa, lentamente, molto lentamente.

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