Turi "u Niuru"




Natty Patanè


giochi del vento di ottobre



S’apriva il giorno nel silenzio del borgo marinaro. Il sole ottobrino lambiva impigrito la falce del molo, si insinuava tra le rocce laviche non ancora levigate, carezzava il fianco di una minuscola chiesa e rimbalzava, placido fino al vecchio mulino. Filtrava, addirittura, dai vecchi vetri della porta scrostata e ferita.
Aprì le ante e mescolò l’odore della pioggia che aveva bagnato la terra la sera prima con quello del caffè che ancora borbottava sul fuoco. Rapida l’aria rinfrescata gli parlò dell’autunno che s’avvicinava.
Sorseggiò dalla tazzina seduto sul gradino di pietra e a lungo guardò le nuvole che rapide correvano verso sud. Un gabbiano si posò nello slargo dove un tempo i pescatori sedevano in cerchio per riparare le reti, ricordò i loro piedi scalzi che le tendevano e le mani spesse e ruvide che, abili, annodavano fili squarciati dalla furia del mare o da qualche pesce più grosso o più forte del solito. Adesso il vento scuoteva un foglio di plastica che penzolava da un balcone, mentre un vortice di cartacce si attorcigliava tra un palo della luce e il muro di cinta di un cortile.
Turi si avviò chiudendo i bottoni della sua giacca nera, poi con la mano cercò nella sua tasca destra il sacchetto, era la dove doveva stare. Proseguì risalendo per la vecchia mulattiera delle “chiazzette” e, socchiudendo gli occhi ripensò a quando da bambino la vedeva trafficata da quadrupedi carichi di merci e dalle lavandaie che portavano alla foce del fiume le lenzuola dei ricchi della città. Zigzagava lento tra le terrazze ripide, fermandosi di tanto in tanto a rifiatare. Solo.
I suoi passi trovavano soffice accoglienza nelle foglie cadute dagli alberi che si spogliavano. Al primo slargo si fermò e volse lo sguardo giù verso meridione, il cielo era terso, come accade talvolta in ottobre, e facilmente potè perdersi mirando i punti più lontani della costa, immaginò le sabbie chiare del siracusano stendersi oltre le rocce laviche delle sue zone e si spinse ancora più giù dove capo Passero si protende a ferire il mare e offrirsi al mondo, salutò ancora una volta il ricordo di suo padre e degli altri marinai del sommergibile “Veniero” e in suo onore raccolte cinque pietre cercando di fare ancora quel gioco che gli aveva insegnato l’ultima volta che lo aveva visto, molti, molti anni prima.
Si appoggiò al muro di cinta e tirò fuori quel pezzo di stoffa consumata legata da un laccio che un tempo era stato rosso. Slegò il fiocco ed estrasse piano l’anello, la foto e la lettera che gelosamente vi custodiva, sorrise, stranamente sorrise stringendoli forte nella mano, come se quel giorno i ricordi avessero voluto liberarlo e diventare solo immagini del tempo trascorso, come se avessero voluto smettere di essere tormento. D’un tratto si accorse di guardare in alto, verso la fine delle chiazzette e il pensiero di percorrerle tutte fu preceduto dai suoi passi che si avviavano per raggiungere lo spiazzo in cui si dissolveva il sentiero, la, cercando tra i rami di un albero del pepe, riuscì a scorgere, nitido, il profilo della montagna che con un vezzo di fumo ricordava il suo cuore di fuoco. Sulla strada statale le auto sfrecciavano incuranti della stagione che rotolava, dei suoi ricordi, degli anelli custoditi. Piano cominciò a cantare una filastrocca da bambini e tra le parole sussurrate confuse il pensiero che lo portava a capire il perché per la gente lui era solo uno di quelli che si avviano traballanti sul filo che separa la saggezza dalla follia, sorrise ancora e continuò a canticchiare: “luna lunedda fammi na cudduredda

Post a Comment

Nuova Vecchia