Blinding the ears,titolo inglese della rassegna Accecare l'ascolto non poteva non tentare la rubrica Ears Wide Shut.
Ho scritto a grandi linee la scorsa settimana, rimandando a qui alcuni dettagli della rassegna che ha proposta spettacoli nei teatri storici torinesi nei giorni della fiera d'arte Artissima.
Partendo da mercoledì ogni sera con acme nel week end con 13 spettacoli. Informazioni al sito :
http://www.artissima.it/ e più dettagli qui http://www.artissima.it/frontend/radiosick/
Come nel titolo sulla copertina accecante verde e rossa la lingua inglese ha preceduto negli spettacoli, quella italiana: tutti quelli del fine settimana-acme erano in inglese, uno solo (Jimmy Raskin: The Disciple's Premature Nostalgia) in doppia recita English-Italian (con spiccato accento forestiero), mi è parso per scelta teatrale dell'autore; elementare nella messa in scena e nella gestione di spazi e movimenti il testo era una dissertazione sul Discepolo, prendendo spunto da Così parlò Zarathustra. Teatro di parola e di concetti, mettendo in scena la traduzione estemporanea, rinforza i concetti di dialogo e lezione, da corpo al binomio discepolo maestro raccontato con le parole.
Tornando ai tanti (troppi a mio parere) spettacoli in lingua inglese: l'intenzione era, credo, quella di un teatro internazionale per un pubblico internazionale: quello di Artissima. Condivido ma se accettiamo che l'inglese è l'attuale lingua globale, perché non scegliere spettacoli davvero internazionali e sopratitolarli in inglese?Quanto visto nei giorni anche solo nei giorni precedenti a Torino nei giorni culturalmente più fertili che io ricordi (reminder: Prospettiva09, Torino Share Festival, Artissima, Torino Movement Festival, Club to Club, Est-Ovest, Torino Danza, Musica90, Visionair, Progetto Diogene, Musiche in mostra, rassegna In Scena, le inaugurazioni della stagione lirica e sinfonica del Teatro Regio e della Stagione Sinfonica dell'Orchestra Nazionale RAI) ha dimostrato che ci sono esempi eccellenti di teatro-danza-musica di produzione internazionale perlopiù non anglofona.
Di due spettacoli dunque non scrivo perché monologhi, troppo legati alla madrelingua inglese per coglierne il valore profondo di testo e recitazione e darne un'opinione.
- Joanne Tatham & Tom O'Sullivan, The story of how we came to be here, what we did before we got here, how you have forgotten why you asked us here and why we cannot remember why we came here, or: Is this what brings things into focus?
- Guy de Cointet, Going to the Market, At Sunrise a Cry was heard Mary Ann Glicksmann
Non ho visto e ascoltato tutti gli spettacoli proposti tra mercoledì e domenica: erano 16 e ne ho persi alcuni, più per incompatibilità di orari che per scelta a priori.
Il primo: Gelitin, All or the just, I 120 minuti di Torino, Teatro Regio. Uno spettacolo nuovo per l'occasione torinese. Gelitin è un gruppo che fa performances borderline: fuori dagli schemi, fuori dai teatri, fuori dalle convenzioni, molto fuori tutto, ed è credo la loro caratteristica e la loro forza. Vivono il teatro e teatralizzano la vita, stanno in scena con la semplicità, la scioltezza, la sfacciataggine, l'impudicizia con cui le persone normali stanno nell'intimità delle proprie vite con in più una volontà – o consapevolezza - di apparire e forse di provocare. Lo spettacolo nuovo era una grande struttura di legno che riempiva il grande palco del Teatro Regio (palco per teatro d'opera) e la performance - senza soluzione di continuità tra l'apertura delle porte un ora circa prima dell'inizio ufficiale e la chiusura (il pubblico che defluiva mentre loro in scena continuavano a smontare facendo bizzarrie) – è consistita del montaggio di questa scena usata durante e in fine al montaggio come trampolino scenico per esibizioni di vario tipo, canoro, musicale, sonoro, fisico-gestuale: evidentemente l'improvvisazione era il copione principale.
In una intervista a Rolling Stone, n.73: “ .. a noi interessa il pubblico specialistico. La fiera è un ottimo contesto. Li si trova il pubblico migliore. Lo spettacolo sono loro, gli spettatori, e le loro reazioni punk.” Non so cosa intendessero con reazioni punk ma le reazioni del pubblico sono state molto sabaude: risate e applausi convintamente discreti, se erano provocazioni non hanno attecchito. I tempi del Living Theater che faceva notizia con il nudo in scena sono lontani.
Ho trovato più coraggioso e più nudo lo spettacolo di sabato al Teatro Carignano: Pablo Bronstein, Phèdre; con la compagnia Il balletto dell'Esperia di Torino. Infatti qui qualche risolino mal soffocato e qualche giudizio d'imbarazzo all'uscita li ho colti: buon segno. Coraggioso intanto perché ha rinunciato al trucco ormai diffuso di stordire con i suoni amplificati e gli effetti speciali: uno spettacolo nudo perché fatto da un pianoforte in quinta e ballerini che recitavano il testo, senza amplificazione: finalmente qualcosa di acusticamente reale. Coraggioso poi per avere portato fino in fondo la premessa detta all'inizio dal regista : “Ci scusiamo per l'ingenuità dei sentimenti narrati dalla storia che metteremo in scena”. Phèdre di Racine, messo in prosa da Ted Huges per una “danza parlata neobarocca” (in italiano) volutamente stucchevole come gli intagli dorati del settecentesco Teatro Carignano. Le musiche altrettanto “anacronistiche” di Haendel e Delibes, ballerini che danzano (bene, è il loro mestiere) e recitano (non è il loro mestiere e si capisce e così da personaggi diventano persone) tenendo pose plastiche statiche e retoriche che sembrano tratte da illustrazioni ingenuamente demodé, sotto un frontale di edificio neoclassico che dava le spalle di cartapesta e strutture di legno al pubblico. Un backstage surreale, intelligente e ironico.
Molta parola e immagini fotografiche oscure in camera oscura (la bella perché ancora non restaurata per usi teatrali manica lunga della Cavallerizza Reale, chissà che qualcuno abbia presente il teatro Des bouffes du Nord a Parigi prima di dare una mano di bianco) per Tris Vonna-Michell: Photography is my punishment. Molto delle intenzioni mi è rimasto oscuro, ma almeno nel buio in piedi della manica lunga, le foto mi sono sembrate illuminate dal contrappunto fonico del linguaggio: usato con attenzione al suono, cantilenato, ritornellato, salmodiato, un suono detto, - almeno un poco – primordiale o preverbale.
Grande attesa per la performance di Nico Vascellari: non sono riuscito ad entrare anche se ero all'ingresso almeno mezz'ora prima (cioè appena uscito dallo spettacolo precedente nella sala di fronte). Quando un artista che non pratica abitualmente il palcoscenico costruisce attesa in un contesto di festival come questo con un top secret impermeabile ad ogni informazione non è difficile immaginare che sarà qualcosa che deve cogliere lo spettatore impreparato, per sconcertarlo perché – immaginavo – lo spettatore non dovrà sapere per poter non capire cosa è teatro e cosa è realtà; non deve sapere il trucco prima. Infatti, nei racconti di chi è entrato, pare siano successe scene di contestazione tra pubblico e scena, telefonini che squillavano ripetutamente in platea, insulti al pubblico, persone in platea che reagiscono e vanno in palco e viene fuori la rissa con il sangue, pare. Il tutto, deduco, simulato, come in un reality show: non mi sono perso nulla.
Bedwyr Williams, Mini Bus. Spettacolo agile e piacevole pensato e messo in scena da uno dei cinque Artists in residence Artissima 2009. Molto site and time specific mette in scena proprio loro, i cinque artisti in cerca di futuro, che proprio a Torino, proprio adesso scendendo dalle montagne in un minibus, nella nebbia hanno avuto un incidente. Il minibus è in scena, vero e davvero accartocciato, il solo sopravvissuto è lui, Bedwyr Williams. Sanguinante ma vivo narra in un monologo sarcastico e divertente: gli altri 4 giacciono al suolo fino agli applausi finali che li risuscitano. Nessuno dubbio sulla fiction, nessuna presunzione intellettuale, tutto è veramente falso.
La performance di Steven Claydon, The bestiary, non mi è piaciuta; stralcio dal programma: “utilizzando tecniche e forme di teatro, gioco e cinema, cerca di evocare gli obiettivi di un gioco che è allo stesso tempo uno spettacolo, un enigma e un disastro: "modesta la ricompensa, spartani i parametri”. Modesto il risultato, trascinato tra rap senza nerbo, suoni e video a grana grossa, maschere, voci e movenze da B movie science fiction anni '70, via di mezzo tra L'incroyable homme-puma e Rollerball, senza l'ingenuità del primo ne la forza visionaria del secondo.
Matt Mullican, Reading that person. Matt Mullican ha giocato bene la sua presenza solitaria in scena tra una lezione su se stesso (cattedra e lavagna alle spalle) e le sue performances pubbliche in cui cade in trance: in una di queste, presentata in video, in tale stato alterato di coscienza, produce azioni bizzarre come strisciare sniffando lungo tutti gli angoli di una stanza bianca gremita di pubblico attento, disegnarne le pareti ad ampi colpi di pennello, in action painting, ripetere frasi d'insulti e imprecazioni reiterate ritmicamente. Vari livelli di altrove: lo spazio del teatro-aula con noi il pubblico e lui, Mullican, che in scena progressivamente entra in una sua dimensione altra, poi la proiezione del video di un altro spazio dove lui stesso, in mezzo ad un altro pubblico, è ancora più sprofondato in un altra dimensione. Quattro gradi di separazione in un solo passaggio. Interessante.
Anche il concerto finale al Teatro Carignano pareva interessante: Soap&Skin, The Present, Marlene Kunz. Un bel cocktail Vienna-New York, Cuneo. Annunciato alle 20.30, molto pubblico, molto ritardo, ordine degli artisti scompaginato: alle 22 s'iniziava a smontare il set del gruppo, a mio avviso , meno interessante (The Present), per montare quello di Marlene Kunz che mi piacciono ma conosco: e qui, più dell'onor poté il digiuno.
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