Ha vinto! Ha vinto!

Natty Patanè


ricordi dal 2030

La mia nascita era prevista per gli ultimi giorni del 1999, ma anche in quello decisi di fare di testa mia ed attesi pazientemente il nuovo millennio per portare scompiglio.
Dopo i primissimi anni di vita infatti, cominciai una corsa frenetica che non smette neanche oggi. Non che io abbia fatto chissà cosa, intendiamoci, ma la mia sensazione è quella di essere stata una bambina prima, una ragazza poi, in movimento perenne.
Abitavamo al primo ed unico piano in cima a ripide scale che ogni mattina mi vedevano sfrecciare tra il terrore rassegnato di mia madre, ormai certa che prima o poi mi avrebbe raccolta frantumata sparsa sui gradini. Il selciato dei tre marciapiede che mi separavano da scuola era una pista per le mie corse forsennate che spesso erano fatte a saltelli su un piede solo, all’ingresso l’anziana bidella esclamava puntuale:
- st’arria lu focu
Alcuni giorni erano poi tutta una furia, ed uno di questi in particolare rimane nella mia memoria, come comunemente accade per ricordi, momenti, storie che ci sembrano insignificanti e, chissà perché, periodicamente ci tornano in mente, come sta accadendo a me adesso mentre scaldo le mani alla tazza dalla quale sorseggio the verde. Fuori le strade godono del gelo della notte.
Sarà stato, credo, il 2010, l’inverno sferzava di vento freddo come nelle sue ultime settimane fa spesso quaggiù da noi. Ogni giorno, subito dopo pranzo cercavo di finire i miei compiti per avere ancora qualche momento di luce per correre fuori con i miei amici, talvolta riuscivamo già alle quattro del pomeriggio a vederci. Io inforcavo la vecchia bici, che a rivedermi nelle foto era proprio piccola per me, gia da dentro il garage, la “rimesa” come la chiamava la nonna e mi catapultavo verso i campi appena dietro casa. Dietro di me Lella arrancava, e già da lontano avvistavamo il pallone che saltellava sulla spiazzo di terra battuta, o Cosimo in piedi sul muretto che faceva vedere a tutti quanto riusciva a sputare lontano, seguito a ruota da tutti noi.
Ogni tanto mia madre ci chiamava tutti per una fetta di pane e nutella, altre volte mio padre veniva in soccorso di qualcuno che aveva sfasciato la catena della bici, ma in quei giorni li vedevamo poco, non che fossero assenti, anzi, li vedevamo da lontano, sempre indaffarati e allegri, come raramente li avevamo visti. Casa nostra era piena di fogli, manifesti, cartoline da cui ci guardava un signore con gli occhi profondi, un orecchino e uno strano anello al pollice.
Ogni tanto sgraffignavo qualche adesivo, erano rossi, d’un rosso acceso, bello, e qualcuno lo regalavo ai miei amici dopo averne piazzati alcuni in bella mostra sulla bici. Nella foto se ne intravede uno con su scritto “diverso”.
Erano giorni in cui non capivo bene cosa stesse succedendo ma a casa era un continuo parlare di sondaggi, percentuali, proiezioni e simili. Poi un giorno papà e mamma presero le loro tessere e mi dissero di andare con loro, allegri, sorridenti.
- ma dove andiamo?
chiesi a mia madre
- a votare
mi rispose allegra tenendomi il viso tra le mani.
Lei era bellissima nei suoi semplici vestiti, avevo cominciato a percepire che i parenti di papà non la sopportavano affatto, ma non mi era chiaro il motivo, non poteva essermi chiaro che non volevano per il giovane rampollo un piccolo negozio di alimentari quando per tradizione tutti i Di Valva raggiungevano almeno la laurea e sposavano le signorine bene, e questo presunto fallimento lo addebitavano al matrimonio con mia madre che definivano sempre con disprezzo usando mille strani nomi.
Quella comunque fu la prima volta che vidi la mia scuola invasa da gente che di solito non c’era mai, poliziotti, vigili urbani, il salumiere e il farmacista, il sindaco e tutti erano eleganti che facevano un po’ ridere.
Al pomeriggio uscì come di solito, mio padre mi preannunciò che avrei cenato dalla nonna che loro avrebbero aspettato: – i risultati – e pronunciò quella parola come se per me potesse significare quello che evidentemente significava per loro. Li avrei visti solo il giorno dopo, assonnati e felicissimi che continuavano a ripetere:
- ha vinto! Nichi ha vinto!
e mio padre improvvisò con me un passo di valzer ridendo e facendomi ridere come una pazza. Si sarebbe sentita aria di rivoluzione ma quel pomeriggio ancora tutto sembrava “normale”.
La campagna era illuminata dal sole che preannuncia una primavera non lontana, anche se il freddo mi pungeva aspro insinuandosi su per le maniche. Lucio aveva un aquilone da far volare che ovviamente non si alzò più di due metri e per pochi secondi ma, sentenziò Mario:
- è colpa della colla, troppo pesante - tanto che dopo alcuni tentativi decidemmo di optare per una serie di gare in bici. Sentivo i miei capelli ricci e lunghi sbatacchiare sulle guance arrossate e la polvere impastarsi sul viso sudato, non so chi vinse la gara, di certo Mario era molto più veloce di noi.
Tornammo verso le nostre case litigando per chi avesse tagliato la strada o per chi avesse barato e improvvisamente una macchina, grande blu, si fermò, scese un elegante uomo dall’età indefinita, si avvicinò con l’aria sbigottita e nella montatura dorata degli occhiali riconobbi lo Ziosandro, almeno così mi dicevano si chiamasse ed io ne avevo fatto un nome unico ad indicare un perfetto sconosciuto, visto che era tra quelli che più decisamente avevano tagliato fuori mio padre dalla storia della sua famiglia. Scese così, trasecolato e con le labbra quasi paralizzate, vedevo che tentava di spiccicare qualche parola ma evidentemente qualche strana malattia lo aveva colpito nel vedermi, lacera, sudata e impastata di terriccio, con il viso marrone incorniciato dai miei ricci che in origine era rossi, intuivo la voglia di parlare ma nessun suono usciva tranne una specie di rantolo che aumento fino a sciogliersi in poche, sgraziate parole:
- ma, ma, ma tu sei, tu sei Carmen! – disse infine
- tu sei Carmen tu sei una Di Valva! Tu non puoi andare in giro così
sibilo’ in una strana tonalità e poi ripetè
- sei una Di Valva
lo guardai esterrefatta, non capivo esattamente cosa volesse ma dentro di me cominciai a sentire quella sensazione che di li a poche ore avrebbe invaso casa mia e le strade del paese, quella voglia di dare voce alla mia voglia di velocità e di affermare la mia esistenza, quella voglia di dirgli che non avrei cambiato la polvere del mio campo con niente di quello che voleva lo Ziosandro o chissà quale altro strano parente sconosciuto. Così, guardandolo dritto negli occhi e posizionando il piede destro sul pedale pronta a correre, cominciai a ridere sonoramente e nello stupore dell’omino dagli occhiali dorati gridai:
- Ziosà! Vaffanculo!-

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