La notte inquieta

Natty Patanè



La luce rossa si frantumava in migliaia di frammenti schizzati sul parabrezza, immobili, così luccicanti che Alberto non aveva proprio intenzione di spazzarli via con il tergicristalli. Dalla radio venivano note confuse, l’aver parlato di reggae durante la cena a casa di Ester gli aveva fatto venire voglia di ascoltare redemption song, ma il cd con Marley lo teneva a casa, così lasciò fluire distratto le parole di un dj approssimativo.
Era stata una bella serata, come sempre lo erano quelle da Ester, tanta gente, quella gente che lo aveva sorpreso qualche mese prima. Li aveva conosciuti quasi per caso e scoperti in fretta così vicini e affettuosi. Tutti così diversi uno dall’altro, quando li ritrovava era come se si tuffasse improvvisamente in qualche scena di un film dai personaggi variegati.
Mezzanotte, forse l’una, una città che si avviava a spegnere le luci della festa e riprendere il freddo delle luci solite della notte, Alberto, Alberto quello nuovo, si ripeteva talvolta, a rimarcare quella specie di rinascita che si era concesso negli ultimi due anni.
A quel semaforo dove al mattino scorazzavano due, tre lavavetri ora si grattava un cane scuro, il pelo arruffato e inumidito, dall’altra parte, nello slargo che qualcuno voleva diventasse una piazza, due figure temerarie si inventavano effusioni di un amore inesistente.
Le mille lucciole rosse diventarono verdi e il motore aumentò i suoi giri verso casa.
Forse per l’intenso freddo della notte di gennaio, casa gli sembrò calda, versò due gocce di mirra nel diffusore e accese la fiammella, si stese sul divano e ricordò attimi persi nel tempo in cui dalla stessa posizione partivano parole che fino ad allora gli erano sembrate incredibili e che faceva rimbalzare in tutte le tante stanze semivuote di quella casa così grande per lui solo.
Era passato ormai il tempo della nostalgia e i ricordi che fino a qualche mese prima lo avrebbero fatto soffrire adesso avevano il sapore dolciastro di un biscotto allo zenzero.
Si affacciò alla finestra dopo aver acceso la radio, dal quarto piano la strada si mostrava fino all’incrocio del lungomare e sembrava quasi di scorgere un brandello insensato di porto.
Fu facile riconoscere la voce e le parole, “ground control to major Tom” forse la voce di Bowie così simile a quella che cercava, forse il vino, forse una follia di quelle da concedersi talvolta, spinsero le dita sulla tastiera, il respiro gli sembrò rallentare e danzare con la musica, cominciò a ripetersi che quella notte non era fatta per star da soli. Modulò la voce e quando dall’altra parte lo sentì rispondere Alberto non esitò a raccontare, e mescolò le foto degli sbarchi di clandestini disperati della notte prima con la voglia di annegare la solitudine che adesso provava, il pezzo preparato per il giornale con l’emozione di sentire di nuovo la sua risata.
E, in fretta, dalla sua torre di controllo diede il via ad un nuovo decollo, tragitto già ben definito, l’aeroporto d’arrivo lo attendeva, si chiese se era felicità ma dopo qualche istante di discesa negli anfratti della mente concluse che bastava quella sensazione di allegria incosciente per fargli avere ancora voglia di pensare al giorno che sarebbe arrivato di li a poco.

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