foto: planisferio (fonte: beniculturali.it)
di Roberto Tortora
di Roberto Tortora
A chi serve la geografia? A tutti.
A che serve? A tutto.
Domande troppo facili? Risposte scontate? Sì. Anzi, no.
Perché nella gran confusione che governa il mondo della scuola e che accompagna il varo della riforma degli Istituti superiori, una certezza c’è: saranno tagliate le ore di geografia.
Monta la protesta dei docenti, si scrivono lettere ai giornali. Sembra – per una volta - che tutti siano d’accordo nel voler indurre il Ministero a ripensare una decisione affrettata, culturalmente e didatticamente improduttiva, addirittura dannosa per i discenti.
Purtroppo, però, quando si affronta la scivolosa materia dell’educazione e della didattica, è possibile giustificare qualsiasi scelta. Da qualche parte, magari congelato in un laboratorio siberiano, ci sarà sempre uno scienziato pronto a farsi uccidere pur di sostenere la giustezza di un’idea, di una nuova teoria pedagogica, la sua urgenza, la sua portata rivoluzionaria e improrogabile. Purché il tutto venga propinato sotto un’etichetta complicata, complessa, altisonante: Gentilismo, Comportamentismo, Cognitivismo, Strutturalismo, Costruttivismo…E’stato così quando si “punivano” i bambini (in pantaloni corti) tenendoli inginocchiati sui sassolini dietro la lavagna; è così oggi, quando restano “impuniti” i ragazzi che prendono a schiaffi un loro compagno sulla sedia a rotelle. E lo sanno bene i poveri docenti, costretti ad assecondare la volubilità teoretica dei grandi pensatori – i quali, chiusi nelle loro eleganti Fondazioni, non hanno mai messo piede nella scuola – e costretti, i docenti, a stendere i loro piani di lavoro dapprima in Unità didattiche, poi in Moduli, poi in Unità di apprendimento…
Dunque, qualcuno sostiene che nel mondo internettiano la geografia non debba più essere studiata in maniera tradizionale (quali sono i monti del Veneto? E quali le risorse del sottosuolo della Calabria? E la capitale della Polonia?); pare che la conoscenza del territorio debba essere affiancata alla Storia, integrata nell’Economia, centrifugata nelle Scienze della terra, scodellata nell’Economia domestica e nel laboratorio di cucina. Altri afferma che un’ora di tivù (National Geographic) valga assai più di dieci ore di insegnamento sui libri; come dire che navigare su Google Heart dia maggiori frutti che imparare le province della Sicilia.
Interdisciplinarietà, multidisciplinarietà…
Transdisciplinarietà : nomi che fanno molto chic nell’ovattato e separato ambito accademico – che, per costituzione genetica, è anni luce distante dalla scuola, quella vera, frequentata dagli alunni - ma che incutono terrore nei non addetti ai lavori (si pensi a tutto quel “trans” che evoca il transgenico, le trasfusioni, la Transilvania coi suoi vampiri…).
In verità, tutto questo vacuo nominalismo universitario può andar bene per giustificare convegni, borse di studio e concorsi a direttore di qualche centro di ricerca, ma provoca danni irreparabili a quei ragazzi che hanno fatto l’Erasmus ma non sanno se Berlino si trovi a Nord o a sud di Roma E’ accaduto ad un esame di laurea, non è una battuta!
Ebbene, c’è stato un tempo in cui i maestri insegnavano con buon senso e nella loro azione pedagogica era riposta la fiducia delle famiglie. La passione e un forte senso della responsabilità educativa si trasmettevano dal docente ai suoi alunni: in quel tempo la geografia si insegnava puntando una canna di bambù sulla carta fisica e politica delle nazioni, posando il dito sul mappamondo. Si insegnava col traforo. I bambini disegnavano a matita il contorno delle regioni, le coloravano a pastello, le ritagliavano, le incollavano sul compensato e infine le sagomavano col seghetto. Le delimitavano così bene che i confini combaciavano gli uni con gli altri, come in un grande puzzle . Una piccola opera d’arte o di artigianato – non importa - creata con le proprie mani, con poveri mezzi e che ogni ragazzo imprimeva in maniera indelebile nella mappa mentale che in quegli anni si andava costruendo. Un’operazione dalle indiscutibili (queste sì) potenzialità educative.
A distanza di decenni, anche a bordo di un jet, anche trasvolando confini intercontinentali, anche con un notebook sulle ginocchia, quei ragazzi diventati adulti continuano a richiamare alla memoria, per orientarsi, il loro personale planisferio. Un planisferio mentale e materiale costruito puntando la canna sulle cartine appese al muro, ruotando il mappamondo sul suo asse, annusando il profumo del legno traforato.
A che serve? A tutto.
Domande troppo facili? Risposte scontate? Sì. Anzi, no.
Perché nella gran confusione che governa il mondo della scuola e che accompagna il varo della riforma degli Istituti superiori, una certezza c’è: saranno tagliate le ore di geografia.
Monta la protesta dei docenti, si scrivono lettere ai giornali. Sembra – per una volta - che tutti siano d’accordo nel voler indurre il Ministero a ripensare una decisione affrettata, culturalmente e didatticamente improduttiva, addirittura dannosa per i discenti.
Purtroppo, però, quando si affronta la scivolosa materia dell’educazione e della didattica, è possibile giustificare qualsiasi scelta. Da qualche parte, magari congelato in un laboratorio siberiano, ci sarà sempre uno scienziato pronto a farsi uccidere pur di sostenere la giustezza di un’idea, di una nuova teoria pedagogica, la sua urgenza, la sua portata rivoluzionaria e improrogabile. Purché il tutto venga propinato sotto un’etichetta complicata, complessa, altisonante: Gentilismo, Comportamentismo, Cognitivismo, Strutturalismo, Costruttivismo…E’stato così quando si “punivano” i bambini (in pantaloni corti) tenendoli inginocchiati sui sassolini dietro la lavagna; è così oggi, quando restano “impuniti” i ragazzi che prendono a schiaffi un loro compagno sulla sedia a rotelle. E lo sanno bene i poveri docenti, costretti ad assecondare la volubilità teoretica dei grandi pensatori – i quali, chiusi nelle loro eleganti Fondazioni, non hanno mai messo piede nella scuola – e costretti, i docenti, a stendere i loro piani di lavoro dapprima in Unità didattiche, poi in Moduli, poi in Unità di apprendimento…
Dunque, qualcuno sostiene che nel mondo internettiano la geografia non debba più essere studiata in maniera tradizionale (quali sono i monti del Veneto? E quali le risorse del sottosuolo della Calabria? E la capitale della Polonia?); pare che la conoscenza del territorio debba essere affiancata alla Storia, integrata nell’Economia, centrifugata nelle Scienze della terra, scodellata nell’Economia domestica e nel laboratorio di cucina. Altri afferma che un’ora di tivù (National Geographic) valga assai più di dieci ore di insegnamento sui libri; come dire che navigare su Google Heart dia maggiori frutti che imparare le province della Sicilia.
Interdisciplinarietà, multidisciplinarietà…
Transdisciplinarietà : nomi che fanno molto chic nell’ovattato e separato ambito accademico – che, per costituzione genetica, è anni luce distante dalla scuola, quella vera, frequentata dagli alunni - ma che incutono terrore nei non addetti ai lavori (si pensi a tutto quel “trans” che evoca il transgenico, le trasfusioni, la Transilvania coi suoi vampiri…).
In verità, tutto questo vacuo nominalismo universitario può andar bene per giustificare convegni, borse di studio e concorsi a direttore di qualche centro di ricerca, ma provoca danni irreparabili a quei ragazzi che hanno fatto l’Erasmus ma non sanno se Berlino si trovi a Nord o a sud di Roma E’ accaduto ad un esame di laurea, non è una battuta!
Ebbene, c’è stato un tempo in cui i maestri insegnavano con buon senso e nella loro azione pedagogica era riposta la fiducia delle famiglie. La passione e un forte senso della responsabilità educativa si trasmettevano dal docente ai suoi alunni: in quel tempo la geografia si insegnava puntando una canna di bambù sulla carta fisica e politica delle nazioni, posando il dito sul mappamondo. Si insegnava col traforo. I bambini disegnavano a matita il contorno delle regioni, le coloravano a pastello, le ritagliavano, le incollavano sul compensato e infine le sagomavano col seghetto. Le delimitavano così bene che i confini combaciavano gli uni con gli altri, come in un grande puzzle . Una piccola opera d’arte o di artigianato – non importa - creata con le proprie mani, con poveri mezzi e che ogni ragazzo imprimeva in maniera indelebile nella mappa mentale che in quegli anni si andava costruendo. Un’operazione dalle indiscutibili (queste sì) potenzialità educative.
A distanza di decenni, anche a bordo di un jet, anche trasvolando confini intercontinentali, anche con un notebook sulle ginocchia, quei ragazzi diventati adulti continuano a richiamare alla memoria, per orientarsi, il loro personale planisferio. Un planisferio mentale e materiale costruito puntando la canna sulle cartine appese al muro, ruotando il mappamondo sul suo asse, annusando il profumo del legno traforato.
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