l'altare profano

di Natty Patanè



Chiazze rugginose guarnivano come merletti il cancello in ferro, su un’anta una porta si apriva lasciando solo uno spiraglio dell’interno agli occhi dei passanti.
Un muro di blocchi lavici alto all’incirca quattro metri completava la recinzione
- aiutami, alza da dietro -
disse Stefano alzando il suo motorino dal manubrio
- cazzo! aspetta che qua mi brucio con la marmitta! -
rispose Giuseppe trafelato.
Un'alta terrazza ospitava una fila di eucalipti mossi dal vento che da est portava quasi l'effluvio di un mare ancora freddo ma già luccicante di riverberi di sole. Giù uno spiazzo di ghiaia da cui spuntavano rade pietre, ospitava il campo di tante battaglie otto contro otto, ai bordi motorini parcheggiati e quelli che non avrebbero giocato in un rimescolamento tra riserve, pubblico e curiosi vari. Dietro una porta un altro muro dietro il quale un lungo sedile in pietra fungeva da spogliatoio.
Stefano salutò Filippo intento a raccontare di gesta calcistiche eroiche mimando cross e tiri al volo e Luigi intento a raccontare di fantasiose gesta amatorie toccandosi continuamente gli slip di cui decantava, fiero, il contenuto
- ah non diri cchiù minchiati Luigi! -
gli esclamo Giuseppe attirando l'attenzione e le risate degli altri.
Più in la', silenziosi e seri gli avversari, temuti e pericolosi, di qualcuno si sussurrava addirittura che fosse pronto a passare direttamente da quel campo al carcere minorile che si ergeva dall'altra parte della strada.
Di tutto questo si ricordò Stefano, mentre chiudeva la portiera dell'auto, nello spiazzo completamente rifatto che un tempo era l'ultimo passo prima della felicità dei suoi campionati di calcio a otto.
Mentre poggiava la mano sullo stipite del nuovo cancello, ripensò a Luigi, alle sue spacconerie, era possente lui, fin dal primo anno di medie era tanto più grande di tutti loro e raccontava di scene incredibili con le quali si accreditava quale esempio di forza o di virilità o di entrambe. Ripensò al giorno in cui si era saputo della sua barca trovata con il fianco sconquassato e di come per tutti la cosa apparve impossibile.
Lanciò uno sguardo oltre il cancello ma non gli parve di riconoscere la silouette degli eucalipti, chissà se la scritta in latino incisa da Filippo resisteva sulla corteccia. Doveva averla fatta prima della finale, già "La" finale che nessuno in quel momento avrebbe immaginato potesse essere l'ultima loro partita in quel campo, la fine del liceo non sembrava ancora lo spartiacque tra le chiacchiere e il peso delle parole, tra la gioia e la soddisfazione professionale.
Si girò verso il muro di quello che era stato il carcere minorile e ricordò del silenzio che ne veniva fuori in quel tempo, quasi come se fosse deserto, diede per un momento le spalle all'ex collegio che aveva ospitato anni di sfide di chissà quante generazioni. Rivide in un attimo le ragazze che venivano li a tifare o imboscarsi tra gli alberi, gli appassionati di calcio che ingannavano l'attesa del pomeriggio da passare allo stadio, quello dei grandi.
Gli sembrò di vedersi li immobile a guardare immagini invisibili del passato. Una sensazione strana lo pervase, quasi che tutta la malinconia si fosse solidificata nella sua gola e volesse uscire fuori come un urlo o uno sputo.
Diede un'altra occhiata, furtiva, da fuori e decise che il dentro sarebbe rimasto per sempre come lo ricordava, lo avrebbe reso uno scrigno dove custodire il sorriso innamorato di Giada che se lo contendeva con Carlo, i motorini pronti per le estati dalle mani rattrappite, il sapore di granita alle mandorle che lasciava sbuffi candidi sulle labbra e quell'odore dolciastro misto tra erba e sudore.
Risalì in macchina e, forse, avrebbe avuto voglia di piangere a pensarci bene. Accese il motore e decise che era tempo di tornare.

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