Bartolomeo & Soscia



foto: composizioni di N. Soscia e S. Bartolomeo (fonte: Pinacoteca comunale di Gaeta)


di Roberto Tortora



Probabilmente, il tempo.
Il tempo che ci fa paura e il tempo che desideriamo ritrovare. Nelle sue composizioni senza forma Salvatore Bartolomeo fissa il processo di generazione della forma. In questi quadri troviamo l’universo prima della Storia, l’universo dopo la Storia. Velature di colore, pellicole di cellulosa, granuli di silicio, sedimentati gli uni sopra gli altri, sono i reperti delle ere remote e di quelle future. Sono le trame e gli strati del tempo.
Nelle composizioni di Bartolomeo non appaiono rassicuranti figure nelle quali specchiarci, non troviamo i riferimenti riflessi della realtà ai quali agganciare la conoscenza del mondo che già possediamo. C’è in esse, piuttosto, lo sciame tempestoso che neppure i sismografi riescono a registrare. Ed è per questo che possono far paura, è per questa ragione che hanno a che vedere con il tempo.
Ma compare in esse, anche, una macchia di luce.
E’ la macchia di luce all’inizio dell’esplosione, quella che dà il via al processo di formazione della realtà; ed è, allo stesso tempo, il traguardo, la meta verso cui tende il magma durante il suo rapprendersi in forma.
Se la luce dà un senso (come alfa o come omega) vuol dire che la Speranza è ancora in essere, è nelle corde dell’artista, è nel suo universo intellettuale e creativo e – letteralmente – generativo. Non necessariamente una speranza di tipo metafisico, ma anche solamente tutta terrena, intesa qui come prospettiva, come possibilità di ritornare a galla dopo essere annegati nel nulla, in un mondo privo di forma e di figure. L’artista nel fare arte ripercorre il processo generativo della forma e la macchia di luce può salvare. Perfino nelle composizioni più cupe, perfino nei vortici scuri in cui - guardando questi quadri - ci sembra di precipitare come nel chiuso incubo dei nostri inconfessabili terrori, la macchiolina di luce, di colore (dunque di vita: il rosso del sangue, il verde della linfa…) sono lì a ricordarci che la voglia di esserci vanta ancora una primazia sulle prospettive ricorrenti di annientamento dell’uomo.
Tutto questo processo imprime alle composizioni una carica compressa, fermata dall’artista nel primo istante della sua espansione e viene incontro a noi che la osserviamo come una gigantesca turbina, capace di trasmettere ondate di energia.
Atomica. Perché la potenza del cosmo è già tutta nel grano di sabbia, è nei corpuscoli di colore rappreso, nei frammenti di carta strappata. L’artista strappa, straccia, sbuccia la carta, la colora e la decolora, la ammolla e la incolla, la grava di sabbia, di tempera indurita. E ancora non basta. Separa e assembla i lembi seguendo un itinerario criptico che però conserva qualcosa di familiare; taglia i materiali e li accosta ripercorrendo traiettorie che hanno qualcosa di riconoscibile. Salvatore Bartolomeo, in altre parole, orienta il caos, interviene per farsi creatore di armonia durante il processo stesso della creazione e non a cose fatte, quando la realtà è già data. L’artista, che ha auscultato le pulsazioni prime e ultime dell’universo in espansione non è registratore, trascrittore passivo dell’amorfa nebulosa; è, invece, più che mai faber, ostinato a manipolare la materia per svelare, nella verticalità del tempo, le vie di fuga che solo una preziosa e ancora tutta da scoprire euritmia può ispirare.
Nel guardare queste composizioni è possibile che ci si senta mancare la terra sotto i piedi; è possibile, sulle prime, impaurirsi per aver smarrito la strada. Ma dura poco. La promessa di ritrovarsi è lì, nella precisa saldatura dei frammenti, nella proporzione delle parti, nell’equilibrio del tutto.
Non c’è traccia di figurazione umana nell’arte di Salvatore Bartolomeo. Eppure essa è profondamente umanistica, perché dopo aver esplorato ciò che è già accaduto e quanto ancora dovrà avvenire in seguito al passaggio degli esseri viventi nello spazio, l’artista sembra suggerire che un principio ordinatore ancora esiste ed esso è tutto nella mente di chi crea e nell’occhio di chi guarda.




Uno scricchiolio.
All’inizio è solo l’impercettibile stridio di ruote meccaniche che stavano per mettersi in moto e subito si sono fermate. Se si annusa l’aria, in queste sale in cui sono esposte le opere di Normanno Soscia, è possibile avvertire l’afrore del lubrificante industriale, l’odore del rotore che era in procinto di girare e invece si è bloccato.
In attesa.
Quest’ala della pinacoteca riservata alle composizioni di Soscia pullula di figure, di oggetti, di mobili e di soprammobili. E le figure sono colte, singolarmente o in gruppo, nella più prorompente esplosione di vitalità. Anzi no, in quella che “dovrebbe essere” la più esplosiva eruzione di vitalità. Ci sono i portatori di Madonna, assiepati in processione, che vorrebbero ostentare nella sopportazione della fatica fisica il travaglio penitenziale e il fiducioso credito di fede. Ci sono i membri del convivio, disposti intorno alla lunga tavolata per saziare una golosa fame di cibo, di vita e di salute. Ci sono gli amanti che si apprestano all’amplesso, per affermare con immodificabile ferocia la voglia pazza di rimanere in vita generando altra vita. Ci sono gli sportivi e i ciclisti, che nella grazia delle acrobazie e nell’esuberanza delle prestazioni fisiche vorrebbero dire la folle pretesa di farsi più forti dello scorrere dei giorni.
Solo che l’empito vitale di queste creature, il loro primordiale istinto che dovrebbe renderli festosamente vivi, sembra che sia stato succhiato via. L’artista glielo ha tirato fuori dagli occhi, che sono rimasti vacue orbite scure, di una fissità che mette un po’ paura, come quella degli automi e delle bambole che ci spiano da una mensola, o delle statue senza pupille. Nonostante la loro esuberanza apparente, nei quadri di Soscia gli esseri viventi sono stati declassati allo status di oggetti, dotati di una dignità esistenziale pari a quella di una conchiglia fossile o di un fermacarte. Anche gli animali hanno subito lo stesso processo di devitalizzazione: l’ariete, persa la sua identità di sfondamento, è diventato un ariete a dondolo, buono solo per il sollazzo dei bambini e il cavallo, il poderoso cavallo, è solo un cavalluccio da giostrina.
Immobili, bloccati in un tempo immobile, aspettano che qualcuno metta in moto il meccanismo.
Non sono uomini e non sono animali resi vivi dall’ardore della vita; sono involucri vuoti, vuote sembianze apparecchiate per una messa in scena, sono elementi di una scenografia di oggi, di ieri e di domani, in cui oggetti del presente e del passato sono posti fianco a fianco e la contemporaneità è già trattata allo stato di reliquia. Sono figure, votate all’alfabeto del silenzio, che lo straordinario talento del pittore restituisce riconoscibilissime e come sopravvissute al trascorrere del tempo: affiorano da superfici screpolate come reperti di un affresco resistente ai terremoti.
Un’aria inquieta si aggira nelle sale in cui sono esposte le opere di Normanno Soscia. Osserviamo i quadri e ci riconosciamo in quelle figure; le guardiamo avidamente perché ci piacerebbe capirne il magnetismo, ci piacerebbe carpirne un po’ del vigore vitale che vogliono sprigionare dalla conturbante bidimensionalità in cui sembrano schiacciate. E invece sono morte: duemila anni fa, sotto la cenere del Vesuvio, oppure l’altro ieri, e non se ne sono ancora accorte.
Come nei nostri sogni angosciosi, quelle figure adesso sono inerti. Bellissimi e acconciati a festa, sono i manichini del luna park folgorati in una posa senza tempo.
Ma che accadrà quando la giostra ricomincerà a girare?
“Chi” metterà in moto il meccanismo?
E dove saremo, noi, in quel momento?
Perché guardando e riguardando questi quadri vien voglia di lasciarsi andare e lasciare che il vortice del carosello ci travolga nell’ultimo giro.



Gaeta, Pinacoteca Comunale d’Arte Contemporanea, 30 aprile – 6 giugno 2010



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