Tetto di spesa alla cultura


G. De la Tour, Baro con asso di quadri; (fonte: Louvre.fr)



di Roberto Tortora


Maggio. E’ tempo di scegliere i libri di testo.
Lungo i corridoi delle scuole in questi giorni è tutto un pullulare di capannelli: prof vecchi e giovani, in piedi, con un libro sotto le ascelle e un altro nella cartella e un altro tra le mani avviano animati dibattiti sul libro più efficace, su quello più analitico, più sintetico, più ricco di immagini, di schemi, di esercizi.
Già da qualche mese, raggruppati in dipartimenti, in consigli di classe e in collegi, i docenti ascoltano le proposte dei rappresentanti editoriali, sfogliano avidamente i nuovi cataloghi, sempre più colorati, seducenti e aggiornati.
I professori sognano ad occhi aperti come sarà stimolante spiegare la propria materia mettendo in campo le ultime strategie di insegnamento, come sarà utile sfruttare le ultime proposte editoriali. Perché i prof hanno a cuore la capacità di apprendimento degli alunni, lo sviluppo delle competenze dei cittadini di domani. Ci si confronta, si litiga perfino, si torna a casa con tre, quattro, cinque tomi compattati nella carta da pacchi marrone e spessa… Si sopporta qualsiasi sacrificio tenendo fede al principio, anzi all’imperativo deontologico, di scegliere il miglior libro possibile per assicurare la migliore istruzione possibile ai nostri studenti.
Ma quando meno se lo aspettano, quando la fatica – anche fisica – della scelta è compiuta, ecco che spunta la tabella dei tetti di spesa.
Proprio così, il tetto di spesa per i libri di testo che ogni consiglio di classe deve rigorosamente rispettare prima di approvare in via definitiva la lista da acquistare all’inizio dell’anno.
Mediamente, circa trecento euro. Non si può sforare. Per il proprio figlio che deve incominciare un nuovo anno scolastico (un tassello indispensabile e irripetibile della sua formazione di adolescente e di cittadino) una famiglia non può – non deve – sborsare più di trecento euro.
Evviva.
Plaude il Governo che ha fissato la norma; plaudono i partiti che si sono battuti per farla votare; plaudono le associazioni dei consumatori che promettono ulteriori ribassi; plaude il sindacato che fa tutto nell’interesse delle famiglie dei lavoratori. Plaudono anche i ragazzi che sperano di avere meno chili di carta da portarsi a scuola la mattina.
Meno di trecento euro, per acquistare la dotazione annuale dei libri indispensabili a studiare otto, nove, dieci materie: libri che, se conservati dignitosamente, potrebbero essere trasmessi ai fratelli e ai figli e perfino ai nipotini. Libri che, al prezzo medio di 25-30 euro, compendiano tre secoli di letteratura (italiana, greca, inglese…), intere aree della geometria, dati e vicende geografiche di tre o quattro continenti, la costituzione e i principi fondamentali del diritto, tappe e correnti della Storia, della Filosofia, dell’Economia…
Ma trecento euro, evidentemente, sono troppi per tutto questo.
Lo affermano i ministri, i partiti, il sindacato, le associazioni dei consumatori. Lo proclamano le famiglie. “Deve esserci un limite a tutto!” dicono. Dunque anche un tetto di spesa per l’istruzione, per la cultura, per la formazione dei giovani.
I professori chinano il capo e obbediscono al nuovo dettato demagogico. Non possono fare diversamente. Il tetto di spesa è legge. Una di quelle che piacciono, che accontentano tutti. Specialmente quelli che si rifiutano di riflettere sulla miopia di un tetto di euro che arreca tanti danni e non procura alcun vantaggio. Un tetto di spesa che viene spacciato come strumento di equità sociale e che invece perpetuerà le discriminazioni esistenti. Ma soprattutto piace a quei genitori che sono disposti ad accontentare qualsiasi richiesta dei loro figli – anche la più vana, la più effimera, la più controproducente – ma che non intendono spendere un centesimo se si tratta di migliorarne il modo di porsi dinanzi a se stessi e dinanzi al mondo. Piace a quei genitori che fingono di non sapere che i loro figli ogni mattina vengono a scuola con in tasca un telefono cellulare da trecento euro e con la griffe di stilisti stampigliata perfino sulle mutande; fingono di non sapere che i loro figli cambiano orologi e montatura degli occhiali più frequentemente di quanto non facciano coi calzini; fingono di non sapere che i loro quindicenni spingono due o tre euro al giorno nei distributori automatici di merendine e bibite gassate, fumano – mediamente – dieci euro a settimana di sigarette e il venerdì sera, il sabato sera, la domenica sera provano a colmare il vuoto lasciato dalla mancanza di istruzione trasferendo più di una banconota sul banco di un bar, con la promessa di un happy hour, e con la certezza, un minuto dopo, di non essere affatto happy.

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