60 secondi di Spatial Coreography di Michael Graeve
Il bel libro di Alex Ross The rest is noise esce in italiano con il titolo Tutto il resto è rumore dove si perde l'ambiguità del termine rest, che in inglese significa anche pausa, nel senso musicale.
(tra parentesi: andate a www.therestisnoise.com" per capire come si possa integrare un libro con le risorse del web)
Leggo sul The new Oxford American Dictionary al vocabolo rest:
- an interval of silence of a specified duration
- the sign denoting such an interval
Senza silenzio non c'è musica: le pause sono silenzi scritti indispensabili alla musica.
Leggo ancora sul New Oxford American Dictionary :
blank: a space left to be filled in a document
Gli spazi bianchi sono le pause del linguaggio scritto e, viceversa, le pause sono gli spazi vuoti della scrittura musicale.
Poi mi viene da pensare al white noise, al rumore bianco, un suono che contiene tutte le frequenze udibili, come la luce bianca contiene tutti i colori.
Penso a questo dopo aver visto presso la galleria blank di Torino due belle installazioni che usano (anche) i rumori.
La prima, spatial choreography di Michael Graeve, che inaugurava ieri, occupa gli spazi interni bianchi e luminosi della galleria. Lunghi suoni sinusoidali, talvolta dissonanti, richiami ripetuti lentamente che evocano animali notturni, rumori improvvisi e silenzi sono diffusi da un impianto audio con 4 casse posto al centro dello spazio e sono composti in sinestesia con 4 tavole monocrome addossate alla parete di fondo, con 4 tracce discrete degli stessi colori brillanti segnate sotto i neon al centro del soffito e con 4 tappetini che richiamano gli stessi 4 colori, posti sotto le 4 casse. Sotto il lettore DVD un tappetino verde che richiama la cornice di identico colore che traccia il margine della grande parete laterale (da cui esce come un cordone ombelicale il cavo di alimentazione che nutre l'impianto audio, chissà se è voluto). Altre tavole rettangolari composte da 5 quadri monocromi di colori più morbidi sono appese alle pareti.
Sul terrazzo Mamagoto, un piccolo lavoro di Miki Yui: uno vassoio tondo con fondo a specchio contiene alcuni cocci, pochi sassi, una scatoletta tonda di latta, un corallo (mi è parso), piccoli altoparlanti (subito sembrano monete d'oro) che diffondono rumori discreti. La piccola preziosa installazione è la memoria visiva e acustica della performance fatta da Miki Yui circa un mese fa: un reperto, quasi una reliquia di un atto artistico cui non avevo potuto assistere.
Ho registrato, come d'abitudine, i suoni della mia visita ma ho scelto, in ultimo e diversamente dal solito, di lasciare le immagini silenziose. In parte perché i suoni delicati del lavoro di Miki Yui risultavano, al riascolto, troppo coperti dai rumori di fondo, in parte perché mi sembra più coerente con i lavori lasciare che a parlare siano le immagini, cercando di ricostruire qui una sinergia tra spazio e tempo.
Un giro completo di lancette dei secondi (1 minuto) per i fotogrammi di Spatial Coreography (foto in alto) e un giro completo di 360° di scatti fotografici intorno a Mamagoto (foto in basso).
360° intorno a Mamagoto di Miki Yui
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