di Vincenzo Jacovino
Un esile, insolito studio dedicato alla vicenda umana di Simone Weil e al suo itinerario filosofico e religioso ha intrigato per qualche tempo. La causa? L’anda- mento dell’analisi in continua mutazione, si trasforma via via da indagine critica in un elegiaco racconto ora appassionato, ora drammatico ma sempre accompagnato da un soffio di tristezza per una delle testimonianze più interessanti e sofferte del secolo da poco trascorso.
L’indagine è, in effetti, duale perché la Benegiano si addentra con mano leggera e amorevole nella vicenda umana e nel relativo vissuto oltre a penetrare con acutezza e sottile perspicacia le opere e il pensiero, Già dall’incipit, l’incontro del lettore con la Weil si incammina su un terreno linguistico lastricato più di sentimento
poetico che di esplicita analisi critica.
“Anche il ‘dove’ e ‘come’ si muore sembra talora simbolico a comprendere il senso che l’essere umano ha dato alla propria vita, e per Simone Weil la corrispondenza è stata tale da fare quasi escludere una fine diversa da quella che ella stessa volle per sé.
Dicono che in quel breve lembo di terra inglese volto al bosco di abeti vicino ad Ashford, dove in una “tomba da poveri”, per quindici anni con un semplice numero 79 senza iscrizione, ha riposato la Professoressa francese – french Professor veniva lì appellata – che si era lasciata col digiuno liberare da questo mondo in dominio del “Principe delle tenebre””.
La lunga citazione da l’idea dell’andamento dello studio che Antonietta Benegiano, ”SIMONE WEIL – il dominio della Forza e la Libertà ” Wip Edizioni, ha scritto sul percorso tormentato di una donna di origine ebraica che volle sperimentare la durezza della condizione operaia, tanto da vivere quella “realtà ” in prima persona portandola a “una docilità forzata da bestia da soma”, e conoscere le sofferenze di quanti erano caduti vittime del nazismo.
La citazione sembra proporci un memoir ma proseguendo la lettura si va incontro alla riflessione critica per poi trasformarsi in racconto filosofico e in tutte le varie fasi il linguaggio è sempre soffuso da un intimo sentimento poetico. E’ vero, lo studio “è molto vivo e suasivo”, (Bà rberi Squarotti) tanto da coinvolgere empaticamente la medesima Benegiano che ci offre non un lavoro esclusivamente di stretta indagine analitica delle opere ma una ragnatela invisibile di emozioni e di evocazioni di tempi e condizioni molto distanti dagli attuali.
Un’evocazione? L’esperienza dei preti operai degli anni ’50 del secolo scorso che, influenzati probabilmente da La condizione operaia, una classe che ha perso, oggi, la propria visibilità per acquisire solo precarietà , vollero anche loro vivere quel tipo di realtà in cui si infrangono e il sentimento della dignità e il rispetto di se stessi “sotto i colpi di una costrizione brutale e quotidiana”. Ancora? La valorizzazione dell’esperienza mistico-religiosa della solitudine simile, in parte, a quella di Bonhoeffer, imperniata sulla rinuncia.
Con la Benegiano cosa accade del fare critico? Qui il processo è alquanto di-verso, perché l’indagine critica è sì sui testi ma, presto, dilaga e va oltre. L’indagine dei testi e del pensiero della Weil è un pretesto per raccontare, in maniera inusitata, la personale empatia.
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