Guillermo Cabrera Infante e il cinema

Guillermo Cabrera Infante è il più cinefilo dei romanzieri latinoamericani. Peccato che in Italia i suoi volumi di critica cinematografica non siano mai stati tradotti perché rappresentano una miniera di informazioni e di dotte disquisizioni tecnico letterarie. Sono libri che contengono aneddoti, raccontano situazioni, fanno sfoggio di giochi linguistici e si pongono come esempio inimitabile di come si possa fare narrativa cinematografica. La Cineteca di Cuba è la prima creatura di Cabrera Infante, che la mette su quando ha poco più di vent’anni, insieme ad altri amici, sfidando Batista e un regime che però non sta a guardare e in poco tempo la fa chiudere.

Carteles è il suo rifugio avanero, scrive critiche di cinema sotto stretta sorveglianza della dittatura, ché gli scrittori liberi non piacciono e il cinema che fa pensare ancora meno. Guillermo non sopporta il potere arrogante di Fidel Castro, la costruzione di un cinema educativo fatto solo per insegnare, pure se era stato un sostenitore della Rivoluzione e aveva creduto in quel giovane antagonista del generale mulatto. È capitato a molti, Cabrera Infante non è da meno, paga con l’esilio, evitando la galera, non finisce come Huber Matos e noi non perdiamo un grande scrittore. Rivede Cuba solo quando muore la madre, poi più niente, non lo vuole neppure la Spagna franchista, ma viene accolto dalla grigia Londra da inglese adottivo, innamorato della sua terra come un amante respinto.

I suoi libri di cinema sono tre: Un oficio del siglo XX (1963) - il solo pubblicato a Cuba che raccoglie le critiche comparse su Carteles -, Arcadia todas las noches (1978) e il monumentale Cine o sardina (1997), ristampato nel 2001 dalla spagnola Suma de Letras. I tre volumi contengono molte notizie su attori, registi, pellicole e rappresentano un catalogo di curiosità per scoprire i gusti cinematografici dello scrittore.
Cabrera Infante conosce Françoise Truffaut, ama il suo cinema, quando vede I quattrocento colpi scrive su Carteles: “Poche volte il cinema ha sfruttato meno elementi del suo arsenale tecnico - un dolly di cinque minuti della cinepresa, più un’inquadratura fissa - e ha ottenuto migliori risultati. Calvert Casey ha detto all’uscita: è terribilmente desolante. Cosa aggiungere? Quello che dissi appena visto il film in Messico e ne scrissi a Ricardo Vigon: è un capolavoro, ma curiosamente non ne ha le apparenze. I quattrocento colpi è cinema del futuro. Di cui, mentre le anticipa, ne vanno gustate la delicata bellezza, la vulnerabile poesia, il livido candore: potrebbe anche essere l’ultimo cinema”. Si tratta di una recensione storica, datata 15 giugno 1960, perché è l’ultimo articolo di Cabrera Infante su Carteles. La rivista non uscirà più, chiusa dal nuovo regime che si differenzia dal precedente solo per diverse imposizioni e nuovi divieti. Cabrera Infante frequenta Truffaut nel 1962, quando si trova a fare l’addetto culturale dell’ambasciata cubana a Bruxelles, primo esilio temporaneo, un modo come un altro per allontanare dall’Avana una presenza scomoda. Il cinema resta la sua passione pure senza Carteles, anche se hanno chiuso Lunes de Revolución.

“Nel dicembre del 1962 ero addetto culturale dell’ambasciata cubana in Belgio e intrattenevo ottime relazioni con Jacques Ledoux, curatore della Cinematheque de Belgique. Una sera mi chiamò: Viene a vedere L’ultima risata? Viene anche Truffaut e mi farebbe piacere che lo conoscesse. Accettai con entusiasmo. Truffaut, col suo proverbiale amore per il cinema, veniva in auto da Parigi a Bruxelles per vedere quel capolavoro del cinema muto. Nella piccola sala, strapiena, una poltrona era riservata al cineasta. Il caso volle che fosse il posto davanti al mio. Truffaut arrivò in ritardo, il film era già iniziato. Si precipitò sulla poltrona con tanto impeto che cedette, facendolo rovinare a terra. Benché muto L’ultima risata cominciò con un sonoro sghignazzo. Ma Truffaut non si scompose, assistette al film seduto sul pavimento, come rapito, devoto come era del cinema e di Murnau”.
Un oficio del siglo XX (1973) raccoglie molti scritti cinematografici di Cabrera Infante, quasi tutti i lavori comparsi su Carteles e Lunes. Recensioni spiritose, sarcastiche, giocose, mai seriose e noiose, perché la caratteristica di Cabrera Infante è proprio quella di prendersi gioco della lingua che utilizza per scrivere. Ecco perché non è agevole tradurre i suoi testi, se non si conoscono bene castigliano e dialetto cubano, ma in ogni caso risulta complesso rendere in buon italiano i numerosi divertimenti linguistici e i molteplici esercizi di stile. Il gioco di parole è la sua tecnica preferita, le assonanze e le fusioni linguistiche sono la caratteristica principale di un autore stilisticamente perfetto, capace di tradurre I Dublinesi di Joyce non in castigliano, ma in cubano.
Arcadia todas las noches (1978) è un nuovo libro di critica cinematografica, ma il lavoro più completo, la raccolta ideale che non dovrebbe mancare nella biblioteca di un buon cinefilo è Cine o sardina (1997), un tomo di oltre seicento pagine che sintetizza la vita critica di un grande scrittore.

Cine o sardina è dedicato alla memoria di José Luis Guarnier e rappresenta l’antitesi di chi si vede costretto a scegliere tra il cibo povero (la sardina) o la visione di una pellicola (il cine), ma il piccolo Guillermo spesso optava per la prima soluzione, perché l’amore per il grande schermo era più forte della fame. In questo libro troviamo l’anima del cinefilo che si infastidisce per le cose che non sono mai come dovrebbero essere. Uno dei suoi bersagli preferiti è il doppiaggio che proprio non sopporta perché toglie a un attore la sua voce e lo spoglia di una caratteristica peculiare della sua interpretazione.
“Nell’inverno del 1965 vivevo a Madrid con Miriam Gómez e le mie due figlie di 7 e 11 anni. A Natale dettero Mary Poppins in versione originale con i sottotitoli, ma dopo poco sparì, sostituito da una versione doppiata. Non ho mai capito il motivo. In Spagna doppiano tutte le pellicole e questa aberrazione cinematografica mi ha in parte consolato di aver lasciato Madrid per Londra. Il doppiaggio distrugge gli attori, le loro vere voci, caratteristiche insostituibili. Il doppiaggio della colonna sonora in nome della conservazione della lingua spagnola è ancora più orribile, oserei dire patetico, quasi una forma di censura, una violenza a un’opera d’arte. In Italia fu Mussolini a proibire le versioni originali con la legge in difesa della lingua, ma nella terra di Dante è nata una scuola di doppiaggio composta da buoni attori che rispettano i film. In Spagna è tutto il contrario. Le pellicole doppiate non sono la stessa cosa della letteratura tradotta. No davvero. L’equivalente della traduzione sono i sottotitoli, utili per chi non conosce la lingua, altrimenti se ne può fare a meno e apprezzare l’opera in lingua originale”.
Cabrera Infante espone le sue idee in fatto di cinema di genere per dire che deve sfornare un successo dietro l’altro per esistere, ma anche sul cinema di serie B, spesso più geniale del cinema maggiore perché prodotto con meno soldi ma con più genialità. “Il cinema nasce dalla fotografia, ma la fotografia è fissa, è uno spaccato di realtà che dura un istante. Il cinema no, è movimento, racconto, storia che si dipana per immagini”, aggiunge lo scrittore. Cabrera Infante spiega i suoi gusti cinematografici e le passioni per attori e attrici. Trova insopportabile vedere Humphrey Bogart che recita doppiato, senza la voce caratteristica dei film originali. Aggiunge che la presenza di un’attrice come Kim Novak poteva risollevare qualsiasi pellicola, persino il prodotto più scadente, perché era d’una bellezza sconvolgente.

“La moglie di Hitchcock, mentre lui girava Gli uccelli, si ingelosì al punto di imporre che venisse ripresa sempre dalla gonna in su. Si sa che le mogli dei registi sono decisive nel cinema, più dei registi e persino dei produttori, perché sono loro che stanno dalla parte di qua della macchina da presa”.
Cine o sardina è diviso in sezioni. Si comincia con una serie di biografie intime. Cabrera Infante sostiene che “Katharine Hepburn è stata la stella più intrigante del cinema dopo Greta Garbo, ha mantenuto lo scettro di reginetta per oltre sessanta anni, aggressiva come Bette Davis e sincera come la Dietrich. L’incontro con Spencer Tracy fu decisivo per il so futuro e per il cinema, perché insieme fecero nove film, anche se il migliore dei due resta Tracy, il più sicuro e concreto, nonostante i personaggi che interpretava. La Hepburn amò John Ford come Spencer Tracy, cattolici sposati fino alla morte, e fu una vera e propria vedova parallela”. Secondo lo scrittore “Marlene Dietrich con il sopravvalutato Angelo Azzurro è stata sempre su un piano inferiore, ma è attrice di indubbia grandezza”.
Cabrera Infante cita Martí: “Io ho un amico morto che viene spesso a trovarmi” per introdurre il racconto degli amici defunti che lavoravano nel cinema. John Kobal l’aveva conosciuto in un cinema nel 1971ed era un vero fanatico cinefilo, proprio come lui e Néstor Almendros, l’occhio del cinema. Kobal era uno straniero in ogni luogo, un cosmopolita, che fondò la Colleción Kobal, la più grande fototeca di cinema del mondo. José Luis Guarner - a cui dedica il libro - era un amico dei tempi giovanili, pure se lui viveva all’Avana e l’altro a Barcellona. Si rividero a Londra, entrambi più vecchi e disillusi. “Luis Guarnier era il primo critico al mondo di lingua spagnola, lui sapeva tutto di cinema… e non lo dico perché eravamo sempre d’accordo. Rammento ancora un articolo su Fellini quando scrisse che era il solo Federico possibile”.

La parte del libro intitolata Pompe funebri accoglie altri ritratti di attori e registi scomparsi. I giudizi sono decisi e ben argomentati. “James Mason era un attore insostituibile, il più grande attore romantico inglese, ricordava Laurence Olivier ed era una grande voce inglese del cinema. Randolph Scott era un attore ricchissimo come il suo amico Cary Grant; William Holden era il mito maschile degli anni Cinquanta, perché ogni uomo avrebbe voluto somigliare a lui. Cantinflas, pseudonimo del comico Mario Moreno, comincia come pagliaccio in un circo, lavora in coppia con Manuel Redel e si trasforma nel Chaplin messicano, identificato per tutta la vita con il suo personaggio. Cantinflas era di umili origini e lo dava a vedere, perché non riusciva a comportarsi in maniera ragionevole con le persone che riteneva superiori per classe sociale o educazione. Era un uomo dal carattere insopportabile, ossessionato dal dover fare beneficienza e dal voler essere ricordato per le sue opere di bene invece che per le sue interpretazioni”
Cabrera Infante dedica un lungo capitolo a Charlie Chaplin. “Chaplin è uno dei tre grandi del cinema inglese insieme a Hitchcock e Cary Grant, un grande londinese, sua città di adozione. Chaplin non voleva far parlare il suo vagabondo perché non amava il cinema sonoro: Adesso abbiamo le pellicole che parlano… a quando le pellicole che profumano?, diceva con scetticismo. In realtà riesce a non farlo mai parlare, perché Luci della città e Tempi moderni lo vedono muto: non sa come il suo personaggio dovrebbe esprimersi, non è facile scegliere un gergo o un dialetto. Chaplin parla ne Il grande dittatore, ma non è Charlot, è un barbiere ebreo reduce di guerra che si sostituisce a Hitler”.

Altri attori e registi sono tratteggiati con arguzia da narratore. “Orson Welles non era soltanto un uomo del Rinascimento ma soprattutto era un vero artista, un uomo odiato e amato per via di successo e denaro. La sua barba era un simbolo. Fece di tutto, pure pellicole commerciali per meri motivi economici. Laurence Olivier era un grande attore di teatro in prestito al cinema, un interprete romantico che sembrava classico. Vincente Minnelli è rimasto nella posterità perché era il padre di Liza Minnelli, ma non è il suo solo merito. Vincente Minnelli è il maestro del dramma a lieto fine, della commedia allegra e musicale, pure se ha diretto più drammi che commedie”.
Françoise Truffaut è un mito di Cabrera Infante.
“Truffaut ha dedicato la sua vita al cinema, una vita che è una biografia cinematografica, una vera e propria storia. Per Truffaut non avrebbe avuto senso vivere senza cinema, sin da piccolo scappava da scuola per andare a vedere pellicole. Morì giovane per colpa di una malattia traditrice, ma fu un uomo felice perché visse di cinema, sua grande passione, e amò molte donne bellissime che interpretarono i suoi film”.

Federico Fellini è un regista immenso, che Cabrera Infante conosce con La strada e difende a spada tratta dalle critiche di chi lo accusava di aver fatto cinema autobiografico e di non avere niente da dire. La sua valutazione è positiva: “Il cinema è proprio l’arte di chi non ha niente da dire ed è soprattutto una grande esperienza visiva. Fellini fa cinema dalla sua vita e non è cosa da poco. Il cinema moderno non esisterebbe, o meglio, non sarebbe lo stesso se non fosse esistito Fellini, l’ultimo dei grandi registi italiani. I miei film preferiti sono Amarcord, E la nave va e l’inimitabile 8 e mezzo”.
Si prosegue con le attrici più amate per sostenere che “Gloria Grahame era il fascino fatto persona”, anche se Cabrera Infante non ama le bionde, ma per lei fa un’eccezione e la chiama “una bellezza del mondo in bianco e nero”. Gloria Swanson è un’altra mitica Gloria. “Sono nato con il cinema sonoro e ho imparato a parlare con il cinema. Gloria Swanson rappresenta nel mio ricordo gli occhi più belli del grande schermo”, dice lo scrittore. “Barbara Stanwyck è l’attrice perfetta per il melodramma, la migliore in assoluto”, secondo Cabrera Infante, che ama pure Ava Gardner, “attrice immortale di rara bellezza dalla vita intensa ricca di amori e di cinema”. Rita Hayworth è “la rappresentazione della bellezza di questo secolo, un essere divino, una dea che ha vissuto amori da leggenda… purtroppo anche le divinità muoiono”. Mae West è un’attrice che Cabrera Infante conosce personalmente e di lei dice che “dominava le commedie d’amore”.

Un lungo capitolo del libro è dedicato al mito di Marilyn Monroe. “Tutti la evochiamo come la luna di ieri, la ammireremo sempre e la ricorderemo nel ruolo della sua vita ne Gli uomini preferiscono le bionde. Marilyn Monroe è stata soltanto un’ombra per tutti noi, ma un’ombra affascinante e il suo fascino è immortale. Un mito costruito a Hollywood, la rappresentazione virtuale della donna nata per il vizio e per l’amore. Avevo tre foto di lei nel mio studio londinese, spesso mi ritrovavo ad ammirare il suo sorriso e il suo corpo perfetto. È stata l’ultima bionda splendente, eterna, immorale, il mito della donna bionda, la dea bianca, la luna che nasce, che rinasce e in se stessa modifica ogni visione”.
Un’altra sezione di Cine o sardina è intitolata Vive, ben vive ed è dedicata a due miti cinematografici femminili ancora in auge come Melanine Griffith e Sharon Stone.
“Melanine Griffith è una margherita di celluloide, una Venere violenta figlia d’arte che debutta con Hitchcock. Sharon Stone parla troppo, dovrebbe tacere di più e limitarsi a essere bella, perché rischia di parlare di cose che non conosce”.
La cineteca di tutti è una parte del libro dove Cabrera Infante racconta i suoi gusti cinematografici e le sue preferenze, partendo dalla considerazione che la storia del cinema è nata da un difetto visivo della retina e da un’invenzione geniale. Le immagini fissate su pellicola che sembrano muoversi, i cartoni animati, sono frutto di un determinato modo di vedere le immagini e di fissarle sulla retina. Cabrera Infante non ama la televisione, ma non vuole commettere l’errore di chi non apprezzava il cinema perché non lo capiva e si limitava a bandirlo dai suoi interessi. “La televisione è utile solo per il fatto che spesso passa vecchi film e mi permette di registrarli e rivederli all’infinito”, afferma. La stessa cosa vale per il cinema a colori, che non va demonizzato, anche perché “non rende belli film che sono brutti e non distrugge i sogni che restano in bianco e nero, ma si limita a rendere migliore la produzione di immagini, sfruttando in pieno le nuove tecniche”.

I gusti dello scrittore sono molto classici: Groucho Marx e Charlie Chaplin sono comici eterni; Alfred Hitchcock e Samuel Fuller sono due registi che apprezza moltissimo; tra le pellicole rivaluta Casablanca che in passato aveva stroncato duramente. Cabrera Infante non è un fan del cinema noir, perché lo ritiene “un ibrido, una cosa indefinita che non è horror, né giallo, né thriller”. In ogni caso Brian De Palma è “l’immaginazione su terraferma, con i piedi per terra, senza ricorrere ai viaggi spaziali di Gorge Lucas e agli effetti speciali di Steven Spielberg”. Brian De Palma va oltre ogni classificazione e non può essere definito autore di genere. Cabrera Infante conclude questa parte del volume dilungandosi sul concetto di trash, che dopo Andy Warhol può servire per definire un certo tipo di opera d’arte e non solo il cinema - spazzatura.
Cine o sardina termina con una sezione dedicata al cinema avventuroso (E l’avventura va), che Cabrera Infante non disdegna, come non disprezza il cinema popolare, visto che è un sostenitori di Quentin Tarantino. Tra le pellicole preferite indica il ciclo di Indiana Jones e Jurassic Park (un vero capolavoro!, scrive), ma non lo stanco remake di King Kong, mentre Blad Runner è la fantascienza moderna e David Lynch è un grande autore per molto cinema fantastico, ma soprattutto per The Elephant Man e Twin Peaks. Un lungo capitolo del volume è dedicato a Quentin Tarantino e Robert Rodriguez, “due autori originali che non devono niente a letteratura, teatro e radio, perchè sono lettori di pulp fiction e spettatori di film di serie B che reinvestano i generi”. Secondo Cabrera Infante “il cinema del passato derivava dal teatro e dai romanzi, ma il cinema contemporaneo deriva da se stesso, come possiamo vedere dalla proliferazione dei remake”. Il finale è tutto per Pedro Almodovar, che Cabrera Infante ama solo per le commedie, quando fa ridere, non quando cade nel melodramma. Almodovar è cinema pop effimero e trasgressione pura.

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