I bambini di Fukushima


di Roberto Tortora


Sui giornali di questi giorni sono apparse due fotografie, quasi identiche.

Nella prima un bambino giapponese di quattro, cinque anni, un bambino dagli occhi a mandorla, se ne sta in piedi, con le braccine bene allargate sopra le spalle, come se qualcuno gli avesse intimato, magari per scherzo, “Mani in alto!”.

Solo che non si tratta di un gioco e davanti a lui non c’è l’amichetto travestito da bandito. C’è un tecnico protetto dalla testa ai piedi (cuffia, tuta, guanti e mascherina) che gli punta contro un contatore per misurare i livelli di radioattività presenti sul suo piccolo corpo. Comunque il bambino esegue l’ordine senza protestare, come a dire che non ha nulla da obiettare, nulla da temere. Le manine, paffute come le guance, delicate come la fronte bombata, fuoriescono da una giacca che dovrebbe proteggerlo dal freddo invernale. E’ inerme, ma lo sguardo possiede la fierezza impassibile che ha segnato la storia del suo popolo. Sta guardando dritto negli occhi il suo controllore. Basterebbe un’oscillazione della lancetta sul quadrante e il destino del bimbo sarebbe segnato per sempre. Questo che sta affrontando è il peggiore esame della sua vita e forse non sarà l’ultimo. Ma non strepita, né si sottrae alla prova.

Dietro di lui si intravede la giovane madre che, immaginiamo, col cuore in gola assiste alla più ingiustificata delle crudeltà. Nemmeno lei si ribella. I loro gesti, i gesti di questa mamma e del suo bambino che sicuramente col terremoto e con lo tsunami avranno perduto qualcosa, forse la casa, il lavoro, qualcuno dei familiari, ampie porzioni di ricordi e di cose care, parti abbondanti del futuro e della speranza, ebbene il loro atteggiamento possiede l’esemplare fermezza di chi ha imparato a fare i conti con la precarietà dell’esistenza, che è la stessa dappertutto, ma qui, in Giappone, più che altrove sembra ondeggiare alla tenue ragnatela delle catastrofi naturali e dei disastri orditi in quelle cattedrali del delirio che sono i laboratori atomici.

Nella sua spietatezza, questa immagine ha qualcosa di magnetico. Resteremmo a guardarla per ore e non solo per la bellezza perfetta che è di tutti i bambini del mondo, ma perché è trascorsa appena una manciata di minuti e il bambino ci sembra già un po’ più grande di quando lo abbiamo visto la prima volta. Compie consapevolmente il proprio dovere di piccolo membro di una comunità in bilico sulla sua ragnatela. Non batte ciglio. “E va bene,” sembra confessare all’uomo che lo sta esaminando, “ditemi pure se passerò il resto della mia vita attaccato ad una flebo. Ma facciamo presto, per piacere, perché lì fuori c’è un Paese da rimettere in piedi e occorrerà che ognuno faccia la propria parte, voi la vostra, io la mia.” Le sue manine innocenti hanno le dita ben allargate nell’aria contaminata che gli ha portato via i giocattoli.

Da dove arriva questo senso della disciplina? Come si forma lo spirito adattativo di un popolo? Qual è l’origine di tanta fierezza e di tanta determinazione in un arcipelago che implacabilmente ricorda ai suoi abitanti che l’unica certezza è la transitorietà? E’ qualcosa che ha a che fare con lo shintoismo, con le coordinate geografiche, con l’educazione impartita a scuola e in famiglia, con i ricorsi della Storia? Difficile dirlo.

L’altra foto, dicevamo, somiglia alla prima. Anche qui c’è un tecnico in tuta protettiva col contatore Geiger tra le mani. Però questa volta davanti a lui compare una bambina sull’attenti, bellissima come può esserlo solo un’innocente dai lunghi e prodigiosamente vaghi progetti. Il tecnico ha in mano un sensore simile a un freddo tubo di alluminio, uno strumento pronto a captare le tracce della morte prossima ventura e con quello le sfiora il pancino. Indugia proprio all’altezza dell’ombelico, in quella regione delle donne che dovrebbe essere sacra e protetta come l’utero dell’Universo. Lei, questa femminuccia di quattro o cinque anni, coi capelli lisci e nerissimi, minuscola e impettita, se possibile perfino più fiera del suo coetaneo, fissa l’uomo dritto negli occhi. Forse proprio da lì, dal suo pancino, trae la sicurezza che per molte decine di anni avrà un mucchio di cose da fare, tutte straordinarie, tutte da vivere.

2 Commenti

  1. Il dolore è dolore, e così la sofferenza, la guerra, il pianto, la disperazione...eppure qualcosa lo rende meno appariscente ma egualmente intenso, meno sfacciato ma assolutmente reale....differenze lunghe secoli....

    RispondiElimina
  2. Fierezza, rispetto per la società, determinazione, senso della collettività...
    E' questo quello che esprimono queste due immagini, due ritratti di una società che nonostante le avversità riesce a mantenere salda la propria dignità; gli si legge sul viso, negli occhi, nei movimenti quella forza interiore che gli rende così impavidi e fieri...eroi. Esatto eroi, perchè ognuno di questi individui che pur avendo perso tutto, affronta con un così grande coraggio e una così grande forza di volontà simili avvenimenti non può che essere chiamato eroe. E viene spontaneo riflettere... se perfino un bambino dopo aver perso probabilmente ogni punto di riferimento, riesce ad essere dignitoso e fiero, come mai noi, qui in Italia, non riusciamo a guardare oltre gli interessi personali per raggiungere finalmente gli quelli del Paese?
    Loro, terremoto, tsunami, allarme nucleare... Noi, diverbi politici, scandali, gossip, miserie umane, interessi di bottega... insomma.... che tristezza! Sarà forse ora di cambiare...

    RispondiElimina

Posta un commento

Nuova Vecchia