di Roberto Tortora
Prima di considerarlo un capolavoro è obbligatorio attendere una ventina d’anni. Così prescrivono le regole della prudenza letteraria. Ma che si tratti di un romanzo straordinario, di una bellezza che ci lascia ad occhi spalancati al termine di ogni pagina, possiamo affermarlo subito.
E’ la storia di una famiglia americana come ce ne sono tante, sebbene padre, madre e figli siano un po’ più belli, un po’ più fortunati e un po’ più intelligenti della media. Perciò non appena accostiamo l’occhio o l’orecchio ad una delle crepe che tagliano in lungo e in largo la facciata della loro bella casa, possiamo consolarci apprendendo che anche i ricchi piangono. Già, perché in questo romanzo americano del XXI secolo si sovrappongono con pari dignità la complessità storico realistica della tradizione ottocentesca (Guerra e pace) e l’intreccio dalle ramificazioni potenzialmente infinite di una soap opera.
La giovane Patty, ad esempio, soffre: sua madre è distratta dagli impegni politici, l’illustrissimo padre la deride e possiede due sorelle geniali quanto basta a farla sentire invidiosa. In fuga dalla famiglia d’origine ne vuole creare una insuperabile, la perfetta famiglia americana. Solo che intrattiene una relazione clandestina con Richard, un rockettaro bello e dannato (somiglia al chitarrista dei Rolling Stones) che è anche il migliore amico di suo marito. Walter (il marito) è molto magnanimo, molto gentile, molto sacrificale. Partendo da un’infanzia difficile si è fatto da sé, come ogni bravo self made man. Inevitabilmente è affascinato anche lui da Richard, e si sentirà in dovere di aiutarlo, ma solo perché, sotto sotto, vorrebbe annientarlo.
Ecco, la trama procede in questo modo. Così il figlio, Joey, Q.I altissimo, entra in conflitto con i genitori perché non potrebbe essere diversamente, si innamora quasi per sbaglio di Connie, e quasi per sbaglio la sposa prematuramente e quasi per sbaglio la tradisce; si imbarca in una impresa politicamente scorrettissima col solo scopo di fare soldi e dimostrare qualcosa a tutti gli altri. Salvo finale riposizionamento sulla retta via.
Insomma, metti insieme tre o quattro esseri umani e accadranno sempre le stesse cose: si attraggono, si respingono, si scelgono per ripiego, si feriscono per superare traumi adolescenziali. Il mondo è lì fuori e la versione che ne è data dai media indurrebbe a crederlo oggettivamente “vero”. Un mondo così com’è, dotato di realistica stabilità. E invece no. Quel mondo è sempre, inesorabilmente, la proiezione dello stato d’animo degli uomini che lo abitano. Stato d’animo condizionato dall’umore del momento: euforia, depressione, ripensamenti, rimorsi, rivalsa, perdono, vendetta. In questo romanzo oggettività e soggettivismo non ingaggiano un duello, piuttosto consumano un miracoloso connubio. Franzen gioca con la letterarietà del già noto, del già visto. Incasella topoi e snodi uno dietro l’altro amalgamando il tutto con la forza trascinante di un linguaggio barocco eppure ipermoderno, nel quale sono mirabilmente fuse tutte le branche del sapere, come se la lingua fosse stata distillata a gocce d’oro dalla spremitura della Biblioteca del Congresso.
Franzen ci dice tutto. Racconta tutto, non tace, non allude, non lascia niente negli interstizi del “non detto”. La sua narrazione funziona come quell’apparecchio adoperato per l’ortopanoramica. L’obiettivo dal quale partono i raggi gira intorno ai personaggi, intorno agli oggetti, intorno ai sentimenti e inesorabilmente ne mette in luce ogni minimo aspetto. Con un furore totalizzante e definitivo. In questo senso Libertà è un romanzo mondo, proprio come lo era Guerra e pace: ad un certo punto della vicenda, il tolstojano Pierre si sovrappone a Walter, mentre Patty è attratta da Richard proprio come Natasha lo era da Anatolij Kuragin. Lì il popolo russo e il generale Kutuzov fronteggiavano l’imperialismo napoleonico, qui è in atto lo scontro di civiltà con G. W. Bush che muove contro Saddam. Chi avrà il piacere di leggere Libertà tra cento anni saprà precisamente quali tensioni distruttive agitavano al suo interno una famiglia americana negli anni che hanno preceduto e seguito l’attentato alle Torri gemelle.
Quella di Franzen è una narrazione coraggiosamente controcorrente, se è vero che oggi numerosi romanzieri prediligono lo stile cosiddetto cinematografico; i romanzi – da Hemingway in poi, passando per Carver - danno sempre più spazio alla scena a discapito della narrazione. Franzen, invece, scava e scava e scava con la forza del racconto, per il piacere del racconto. Libertà è anche questo: una convinta, trionfale riaffermazione della letteratura, qui intesa come racconto scritto. Nell’epoca dei filmati e delle immagini, la prova del tradimento di Patty è affidata “anacronisticamente” a un manoscritto e Walter, per mortificare la moglie colpevole, “cita” le sue parole scritte.
E’ un romanzo superbo, il prodotto di un talento narrativo che lascia allibiti e Franzen è già accanto ai grandissimi, è già accanto a Roth.
E’ la storia di una famiglia americana come ce ne sono tante, sebbene padre, madre e figli siano un po’ più belli, un po’ più fortunati e un po’ più intelligenti della media. Perciò non appena accostiamo l’occhio o l’orecchio ad una delle crepe che tagliano in lungo e in largo la facciata della loro bella casa, possiamo consolarci apprendendo che anche i ricchi piangono. Già, perché in questo romanzo americano del XXI secolo si sovrappongono con pari dignità la complessità storico realistica della tradizione ottocentesca (Guerra e pace) e l’intreccio dalle ramificazioni potenzialmente infinite di una soap opera.
La giovane Patty, ad esempio, soffre: sua madre è distratta dagli impegni politici, l’illustrissimo padre la deride e possiede due sorelle geniali quanto basta a farla sentire invidiosa. In fuga dalla famiglia d’origine ne vuole creare una insuperabile, la perfetta famiglia americana. Solo che intrattiene una relazione clandestina con Richard, un rockettaro bello e dannato (somiglia al chitarrista dei Rolling Stones) che è anche il migliore amico di suo marito. Walter (il marito) è molto magnanimo, molto gentile, molto sacrificale. Partendo da un’infanzia difficile si è fatto da sé, come ogni bravo self made man. Inevitabilmente è affascinato anche lui da Richard, e si sentirà in dovere di aiutarlo, ma solo perché, sotto sotto, vorrebbe annientarlo.
Ecco, la trama procede in questo modo. Così il figlio, Joey, Q.I altissimo, entra in conflitto con i genitori perché non potrebbe essere diversamente, si innamora quasi per sbaglio di Connie, e quasi per sbaglio la sposa prematuramente e quasi per sbaglio la tradisce; si imbarca in una impresa politicamente scorrettissima col solo scopo di fare soldi e dimostrare qualcosa a tutti gli altri. Salvo finale riposizionamento sulla retta via.
Insomma, metti insieme tre o quattro esseri umani e accadranno sempre le stesse cose: si attraggono, si respingono, si scelgono per ripiego, si feriscono per superare traumi adolescenziali. Il mondo è lì fuori e la versione che ne è data dai media indurrebbe a crederlo oggettivamente “vero”. Un mondo così com’è, dotato di realistica stabilità. E invece no. Quel mondo è sempre, inesorabilmente, la proiezione dello stato d’animo degli uomini che lo abitano. Stato d’animo condizionato dall’umore del momento: euforia, depressione, ripensamenti, rimorsi, rivalsa, perdono, vendetta. In questo romanzo oggettività e soggettivismo non ingaggiano un duello, piuttosto consumano un miracoloso connubio. Franzen gioca con la letterarietà del già noto, del già visto. Incasella topoi e snodi uno dietro l’altro amalgamando il tutto con la forza trascinante di un linguaggio barocco eppure ipermoderno, nel quale sono mirabilmente fuse tutte le branche del sapere, come se la lingua fosse stata distillata a gocce d’oro dalla spremitura della Biblioteca del Congresso.
Franzen ci dice tutto. Racconta tutto, non tace, non allude, non lascia niente negli interstizi del “non detto”. La sua narrazione funziona come quell’apparecchio adoperato per l’ortopanoramica. L’obiettivo dal quale partono i raggi gira intorno ai personaggi, intorno agli oggetti, intorno ai sentimenti e inesorabilmente ne mette in luce ogni minimo aspetto. Con un furore totalizzante e definitivo. In questo senso Libertà è un romanzo mondo, proprio come lo era Guerra e pace: ad un certo punto della vicenda, il tolstojano Pierre si sovrappone a Walter, mentre Patty è attratta da Richard proprio come Natasha lo era da Anatolij Kuragin. Lì il popolo russo e il generale Kutuzov fronteggiavano l’imperialismo napoleonico, qui è in atto lo scontro di civiltà con G. W. Bush che muove contro Saddam. Chi avrà il piacere di leggere Libertà tra cento anni saprà precisamente quali tensioni distruttive agitavano al suo interno una famiglia americana negli anni che hanno preceduto e seguito l’attentato alle Torri gemelle.
Quella di Franzen è una narrazione coraggiosamente controcorrente, se è vero che oggi numerosi romanzieri prediligono lo stile cosiddetto cinematografico; i romanzi – da Hemingway in poi, passando per Carver - danno sempre più spazio alla scena a discapito della narrazione. Franzen, invece, scava e scava e scava con la forza del racconto, per il piacere del racconto. Libertà è anche questo: una convinta, trionfale riaffermazione della letteratura, qui intesa come racconto scritto. Nell’epoca dei filmati e delle immagini, la prova del tradimento di Patty è affidata “anacronisticamente” a un manoscritto e Walter, per mortificare la moglie colpevole, “cita” le sue parole scritte.
E’ un romanzo superbo, il prodotto di un talento narrativo che lascia allibiti e Franzen è già accanto ai grandissimi, è già accanto a Roth.
Jonhathan Franzen, Libertà, Einaudi, euro 22,00, p. 622.
إرسال تعليق