8 1/2, ovvero la Non-Idea

di Bianca Rita Cataldi

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LOCANDINA DEL FILM "8 1/2" DI FEDERICO FELLINI, poster
Fonte: allposters.it


Otto film. Otto idee. Poi, una metà: la Non-Idea.


1963. La prigione di Alcatraz ritira finalmente i suoi artigli e viene chiusa per sempre. Martin Luther King tiene il discorso I have a dream dinanzi ad un’immensa folla, piccola parte di un’umanità che sta cambiando. In una sera di giugno, il mondo perde Giovanni XXIII. Mina canta Stessa spiaggia, stesso mare con un taglio di capelli a caschetto che ha fatto storia. E Federico Fellini gira un film che non è un film.


LA GENESI DEL FILM

Lo intitola provvisoriamente “8 ½” perché non gli viene in mente niente di meglio. Perché non ha un’idea precisa, per la verità. Il grande regista si è ormai lasciato travolgere da una caotica giostra di pensieri, che vortica dentro di lui e che preme, preme insistentemente contro le pareti del suo corpo per uscire. Un disordine che muove la sua penna verso una sceneggiatura che altro non è se non delirante poesia: parole che riecheggiano sul fondo degli incubi di ieri, di oggi e di sempre, parole che lottano contro il vuoto di significato per rivendicare la loro assoluta legittimità. E intanto, passano i giorni. C’è un film da realizzare, e ci sono produttori da mettere a tacere e risposte da dare alle infinite domande che gli vengono rivolte, ma Fellini non ha altre idee al di là di questa geniale, caotica Non-Idea. Dunque, il titolo. Un titolo messo lì per caso, perché non c’era niente di meglio. Eppure, quelle cifre – 8 ½ - sono l’estrema, matematica, sintesi di ciò che accade nella mente del regista.


IL SIGNIFICATO DEL TITOLO

L’otto, perfetto nelle sue rotondità infinitamente percorribili, sembra quasi ricalcare l’ordine insito nei film già realizzati. Un numero che è completezza, che non si interrompe mai, che insegue continuamente le proprie curve senza scossoni né singhiozzi. Otto film. Otto idee. Poi, ½. Che non sembra nemmeno un numero, con quel taglietto obliquo che divide l’uno dal due. Un Non-Numero per una Non-Idea. L’incompletezza. L’imperfezione. L’interrotto. Otto film e un episodio. 8 ½, semplici numeri che quasi feriscono lo sguardo nel momento in cui appaiono nei titoli di testa, immobili nei loro caratteri gotici contro il nero dello sfondo. E qualche istante dopo questa fugace apparizione, il film ha inizio. Uno splendido Mastroianni in camicia inamidata si muove sicuro di sé in un personaggio che, al contrario, è insicuro e instabile. Un personaggio – Guido Anselmi, regista di mezza età alle prese con un nuovo film – in profonda crisi interiore. In lui, l’artista e l’uomo sembrano inizialmente seguire due strade diverse, ognuno perso nei suoi problemi e, tuttavia, pericolosamente vicini. Nella prima metà del film, infatti, è la crisi dell’uomo a prevalere: le numerose donne sono ancora reali, presenti, per così dire verosimili. I ricordi d’infanzia, che frenano di tanto in tanto il flusso già di per sé incostante della narrazione, sono di volta in volta critiche alla famiglia, alla Chiesa e all’istruzione, rielaborate dalla mente dell’uomo maturo. Nella seconda metà del film, invece, la crisi dell’artista - alle prese con un film che sembra irrimediabilmente destinato a divenire un aborto – si confonde con quella della persona stessa. Le scene iniziano a mescolarsi e a vorticare, il tempo diventa Fuori-tempo, e la Non-Idea, che aveva ormai occupato la mente del regista Fellini, entra prepotentemente nei pensieri del regista Anselmi, il protagonista.


NOTHING TO SAY

Un film nel film, dunque. E lo spettatore non può più distinguere la realtà dalla fantasia, il vero dal falso. Il realistico cede il passo a un più largo verosimile che diviene infine, dopo una disperata accelerazione, surreale. Particolarmente interessante è il ripetersi, nel corso del film, dell’espressione “Più niente da dire”. Queste parole compaiono più volte sulle labbra del protagonista, che non riesce a venire capo del suo film, ma ancor più sulle labbra di sua moglie, Luisa, interpretata da un’Anouk Aimée splendidamente gelida e nervosa. Nel finale, Luisa grida addirittura “He has nothing to say traducendo in inglese, dunque, la suddetta espressione. L’inglese è voluto e indispensabile, poiché è l’unica lingua che tutti i personaggi del film, attrici e attori di diverse nazionalità, possono comprendere. Luisa, quindi, rende definitivamente pubblica la disfatta di suo marito: tutti i personaggi del film e tutti gli spettatori al di là dello schermo devono sapere che Guido Anselmi ha fallito, che non ha più nulla da dire. E per ben due volte, nel film, il personaggio Guido muore: all’inizio, in una macchina piena di gas dinanzi agli occhi spenti e distratti degli altri, e alla fine. E non è un caso che Guido, pressato da tutte le donne e le attrici e i produttori della sua vita, si nasconda sotto un tavolo e si spari alla tempia dicendo Datemi un attimo, devo pensare a cosa dire”. Cosa dire. Cosa dire. E’ questa la chiave dell’intero film: il disordine del pensiero che, tuttavia, è comunicazione, al contrario di ciò che Guido e Luisa credono. E’ il caos, ciò che il regista – Guido, ma anche Fellini – ha da dire. Dunque quel He has nothing to say è una bugia, così come sono una menzogna la macchina piena di gas e lo sparo sotto il tavolo. Infine, il protagonista giunge alla resa dei conti.


GLI "ALTRI"

L’enfer c’est les autres, scriveva Sartre. Guido, invece, capovolge questa affermazione, nel momento in cui capisce di dover accettare gli altri, il suo passato e tutto ciò che lo circonda per ricominciare a vivere. Significativa, infatti, è la scena dei provini: il produttore costringe Guido a guardare, e riguardare, le registrazioni dei provini per scegliere gli attori adatti al film. E gli attori in questione altro non sono che coloro che hanno popolato la vita di Guido. Accettando gli attori e scegliendoli per il suo film, il regista accetta tutte le persone – reali – che lo hanno accompagnato negli anni. Le donne del suo passato diventano personaggi, la realtà si capovolge e il film diviene, lentamente, inesorabilmente, uno specchio appena un po’ incrinato della sua vita. E tuttavia, così come il film, inizialmente destinato al fallimento, viene improvvisamente riportato alla luce negli ultimi minuti della pellicola, così la vita del protagonista ricomincia sotto la protezione di un imprevedibile ottimismo. Ecco spiegata, dunque, la scena finale: niente di meglio del circo, infatti, può esprimere la gioia improvvisa, la liberazione del protagonista, il ritorno del bambino che è in lui. Infatti, proprio nella scena finale, ricompare il bambino Guido, per la prima volta vestito di bianco. E’ lui, infatti, a dirigere la piccola orchestra che lo segue senza sosta in circolo, come in una stramba processione. L’innocenza del bambino prende il sopravvento sul disordine, sulla folla di gente – gli altri, appunto – che Guido ha finalmente imparato ad accettare. “Ma che cos'è questo lampo di felicità che mi fa tremare, mi ridà forza, vita? Vi domando scusa, dolcissime creature; non avevo capito, non sapevo. Com'è giusto accettarvi, amarci. E come è semplice! Luisa, mi sento come liberato: tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero. Ah, come vorrei sapermi spiegare. Ma non so dire... Ecco, tutto ritorna come prima, tutto è di nuovo confuso. Ma questa confusione sono io, io come sono, non come vorrei essere adesso. grida Guido, giunto ormai al termine della sua lotta interiore. E così, al ritmo della musica frizzante di Nino Rota, si chiude il film, spegnendosi al di sopra di ogni personaggio e lasciando soltanto il bambino al centro della scena, vestito di bianco, fermo nel suo limitato, e tuttavia splendente, alone di luce.






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