Dopo aver scontato la condanna per spaccio di droga, la nigeriana Kate Omoregbe ha chiesto di restare in Italia. Dietro la sua scelta, il terrore della lapidazione al ritorno in patria.
Quattro anni fa, la nigeriana Kate Omoregbe era stata condannata alla reclusione per spaccio di droga. Quattro anni sono trascorsi, dietro le sbarre del carcere di Castrovillari, tra ansie e timori e speranza. Infine, nella giornata di ieri, allo scadere del periodo di detenzione, Kate è stata condotta al CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione) di Ponte Galeria, dove ha incontrato i collaboratori del Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Alla base dell’incontro, un grave problema da discutere: il presunto ritorno in patria della nigeriana.
IL RISCHIO: LA LAPIDAZIONE
Dopo essersi convertita al cristianesimo, Kate Omoregbe aveva rifiutato di sposare un uomo più anziano di lei, scelto (o meglio, impostole) dai suoi genitori come compagno di vita. Kate, tuttavia, è consapevole del rischio al quale la sua scelta l’ha esposta: al ritorno in patria, potrebbe trovare una famiglia non più disposta ad accettarla. Soprattutto, il ritorno nella terra natia potrebbe costituire anche il termine ultimo della sua esistenza: dietro le tradizioni nigeriane, antiche di secoli, si nasconde, infatti, il rischio terribile della lapidazione. Kate sa che la sua scelta può portarla alla morte e, per questo motivo, ha chiesto asilo politico in Italia. Fortunatamente, l’incontro al CIE si è concluso con una risposta affermativa: la nigeriana ha ottenuto l’asilo politico. Tuttavia, come sottolinea il Garante Angiolo Marroni, “La felice conclusione di questa vicenda non può farci dimenticare che esiste un problema che riguarda la tutela internazionale degli stranieri detenuti”.
KATE SI E’ SALVATA. E GLI ALTRI?
Alla base del problema legato ai detenuti stranieri vi è, sostanzialmente, un problema burocratico. Nel momento in cui uno straniero viene arrestato in Italia, perde il diritto al rilascio e al rinnovo dei permessi di soggiorno per protezione internazionale. Per questo motivo, al termine del periodo di detenzione, gli stranieri vengono accompagnati al CIE per chiedere protezione. Così, dopo aver trascorso un periodo di tempo in carcere, gli ex detenuti sono costretti a impegnare ancora altro tempo della loro vita nel CIE, in attesa dell’espulsione. Paradossalmente, gli stranieri vengono scarcerati per poi essere nuovamente “arrestati”. Come nota il Garante Angiolo Marroni, “il problema è soprattutto burocratico, di assenza di strumenti e risorse idonee a creare un iter ad hoc per questo tipo di interventi.”. Tale “assenza di strumenti” è il simbolo, in realtà, dell’indifferenza di un Sistema che, effettivamente, non si preoccupa di attivarsi sin dal periodo della detenzione. “Non si capisce” – conclude Marroni – “perché occorra attendere che [lo straniero] venga trasferito nel CIE per chiedere il riconoscimento della protezione internazionale.”.
Speriamo, dunque, che il lieto fine della “vicenda Kate” sia la prova generale di un cambiamento a largo raggio affinché anche gli stranieri, terminato il periodo di detenzione in Italia, possano ricostruirsi una vita dignitosa e sicura.
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