di Roberto Tortora
C’è l’immagine ricorrente e persistente della circonferenza
nella poesia di Franco Trequadrini, una circonferenza letterale e metaforica.
L’immagine del lago, per esempio, che è parte del paesaggio abruzzese caro al
poeta; l’immagine della pupilla, così rotonda e assorbente da contenere tutte
le altre immagini del mondo. E poi i fianchi della donna, modello di curvatura
perfetta e magnetica, all’inizio e alla fine di ogni esistenza. C’è, dunque, la
circolarità biografica. Il poeta ha molto vissuto, molto viaggiato e sperato,
ha combattuto, vinto e perso. Adesso ha bisogno di quiete senza stilare
bilanci, prende tra le mani un capo della propria vita, quello attuale dell’età
matura, e prova a ricongiungerlo all’altro capo, quello dell’infanzia. Lì, tra
fiabe, sogni, castelli di sabbia e avventure nei mari infestati dai pirati
malesi il poeta aveva provato quella pienezza che tocca in sorte solo ai
bambini, quando l’adesione all’esistenza è stata totale e fiduciosa. Un incanto
che cessa quando si comincia a diventare adulti e si pretende di sistemare la
mobilità del mondo in un classificatore dall’aspetto ordinato. Ed è stato in
questo momento che il poeta ha incontrato la donna capace di riportarlo nei
paradisi infantili. Una donna dotata di quella rotondità (occhi, seno, anche)
alla quale egli aspirava e che si portava dentro come sogno segreto e totale. L’uomo è l’infante/ corrotto dalla parola//
mondo rotondo di stupore/ colori che pulsano come vene/ opposti circolanti come
sangue// poi gli alfabeti diedero/ un posto alle cose/ perché non si muovessero
più// solo l’amore ci risucchia/ nei giardini segreti dell’infanzia.
A queste conclusioni si giunge quando l’età ci consegna una
lunga teoria di anni a venire contrassegnati dal freddo della solitudine. Ma la
poesia di Trequadrini non si abbandona a sdolcinate lamentazioni. Qui non c’è
niente di patetico. Esprime, invece, fiero e amaro, quel senso di inutilità che
accompagna chi sta per uscire dalla vita
attiva, dalla vita lavorativa: Sorveglio
la porta di casa/ dove nessuno bussa per prendere un caffè/ e nessuno entra per
raccontare destini./ Una casa dove non entrano amici/ è una scura tana per
sonni vegetali/ e una fessura per guardare il mondo/ che fuori vive senza di
te.
D’altro canto, se si guarda intorno, il poeta vede un Paese
in preda al malaffare, rapinato e frodato da ruffiani e prostitute. Non è più
il caso di lottare con la speranza di cambiare il mondo. Meglio svanire, sciogliersi nella Natura,
vaporizzarsi in un amore salvifico, quello che solo riesce a trattenerci dal
precipizio che si chiama inferno: Avanzi
patetici, segnalibri di volumi/ appesantiti dalla polvere:/ mi sopravvivranno,
cadranno nella tomba subito dopo di me,/ e solo allora di me non resterà più
niente./ Di queste città niente resterà: solo il vento che le attraversa/ dice
Brecht, e così è stato della mia città./ Lo stesso vento mi spazzerà,/ e
comincerà a spazzarmi via quando mi dirai/ che da te non potrò più aspettare un
bacio.
Un’idea di rotondità ricorrente, dicevamo, che si trova
inscritta negli ultimi oggetti cari al poeta, la pipa, la chitarra, e che si
trova soprattutto nell’avvallamento del grembo materno: un’immagine di completezza
coltivata a lungo, forse inconsciamente, fin da bambini, quando il mondo aveva
una sua perfezione senza spigoli, senza angoli bui e solitari e tutto era
compiuto e luminoso, tutto era nel cerchio delle sensazioni primordiali, tutto
era nella pupilla che si impadronisce del mondo.
Franco Trequadrini (1945) ha insegnato Storia della
Letteratura italiana e Letteratura per l’infanzia all’Università dell’Aquila.
Dopo una intensa produzione saggistica è ritornato alla scrittura in versi con
questo libro che contiene anche cinque racconti.
Nelle pagine in prosa Trequadrini percorre le relazioni
amorose come una miracolosa e misteriosa tessitura in cui si combinano tenerezza e sfrenato erotismo. Descrive la
carnalità degli atti e ciò che di essi resta nella memoria quando uno degli
amanti è sepolto sotto una fredda pietra e all’altro non resta che baciare una ciocca di
capelli. Un rito che, nella sua segreta e privatissima nudità, diventa ragione
di vita.
Ma tra questi racconti occorre ricordare Angeli di polvere, un referto crudo e insieme
sentimentale del terremoto che ha sconvolto L’Aquila nel 2009. Reportage
iperrealistico nella conta dei dettagli (i jeans sporchi di polvere delle
studentesse morte, la fuga in auto senza i croccantini per il gatto) e, al
tempo stesso, l’esplosione di una cattedrale di sentimenti, di ricordi, di
amori legati e quasi impastati nella materia stessa della città che è crollata.
In queste pagine Trequadrini ci regala una di quelle cronache in diretta che
sole danno la misura del mistero universale del dolore, una di quelle prove in
cui anche il solo rotolamento di una pietra si espande a ondate nell’aria e assume
echi metafisici: Cumuli, cumuli, cumuli
dappertutto, e sullo sfondo il Gran Sasso resta eterno e indifferente nella sua
severità balcanica, avaro di vegetazione e maschio nell’orgoglio della sua
solitudine.
Franco Trequadrini,
FRAMMENTI di vita raminga, Verdone
Editore, Castelli (TE), 2012, pp. 126,
€ 10.00.
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