AI WEIWEI: L'ARTE CINESE CONTEMPORANEA TRA ROTTURA CON LA TRADIZIONE E NUOVE CONTAMINAZIONI

Ai cari lettori di TERPRESS
vi presento un nuovo collaboratore Sauro Sassi, mio ex compagno di scuola superiore e anche lui finito in banca ''per errore'', ritrovato grazie ai social dopo tanti anni. Sauro si appassiona dal 1976 all'arte contemporanea visitando per la prima volta la Biennale di Venezia. Non ha mai smesso di documentarsi e visitare le principali mostre e musei, anche fuori dall'Italia. Sauro ritiene che la cultura sia oggi il solo strumento per combattere l'imbarbarimento civile, sociale, morale che rischia di sommergerci tutti.
nadia d'arco
le foto sono di proprieta' di Sauro Sassi



             AI WEIWEI O DELL’ARTE SOCIALE

Una cosa che rende l’arte contemporanea particolarmente affascinante è la sua capacità di riflettere il presente, di aiutarci a pensare il mondo in cui viviamo. Si potrebbe dire che questo attiene a ogni forma di espressione, dalla letteratura al cinema, ma io credo che questo aspetto sia particolarmente sviluppato proprio nelle arti visive, perché, a partire da Duchamp, l’aspetto rappresentativo delle opere è sempre unito a un pensiero filosofico e politico, nel senso alto del termine, sul reale. La globalizzazione ha fatto sì che il campo degli artisti si sia esteso a tutto il mondo. Ormai nelle grandi mostre internazionali si incontrano artisti da tutti i continenti, che hanno assimilato la cultura occidentale e l’hanno mescolata con elementi di quella dei paesi di origine.
Un esempio tra i maggiori di artista globalizzato è il cinese Ai Weiwei, a cui è dedicata una vasta mostra al Palazzo Strozzi di Firenze. E’ diventato famoso proprio perché ha voluto confrontarsi col potere, criticando fortemente, nelle proprie opere, quello del suo paese e ricevendone botte e prigione. Ai Weiwei, nato nel 1957, ha attraversato fasi aspre della storia della Cina. Il padre, poeta in odore di Nobel, che pure aveva aderito al partito comunista, venne accusato di posizioni di destra ed esiliato con la famiglia in un piccolo villaggio isolato. Riabilitato dopo una ventina d’anni, tornò a Pechino e il figlio, poco più che ventenne, decise di trasferirsi negli Stati Uniti, dove si formò come artista, essendo attratto soprattutto da Duchamp e Warhol (e direi che queste presenze restano tuttora preminenti nel suo lavoro). Conobbe anche poeti, tra i quali Allen Ginsberg, e iniziò a usare la fotografia, principalmente per autorappresentarsi, con un grande numero di scatti a documentare momenti anche comuni della propria vita. Anticipò, così, un’attitudine che avrebbe grandemente sviluppata e affinata con la nascita della rete e dei media sociali. Rientrato in Cina nel 1993, iniziò di fatto la sua attività artistica. Avviò un confronto con la millenaria tradizione culturale cinese. Durante l’epoca maoista l’arte e la cultura del passato erano sommamente disprezzate e tante opere erano state distrutte. Qui si inserisce un momento ambiguo della sua attività, perché, da un lato, raccoglie gran quantità di utensili e oggetti artigianali che utilizza per grandi installazioni, dall’altro, con riferimento alla cultura Pop, dipinge su antichi vali il logo della Coca Cola o li immerge in vernici industriali colorate, mutandone totalmente la percezione. In una performance famosa, documentata da tre fotografie, lascia cadere dalle mani un’urna della dinastia Han, per protestare, con un atto di cosciente barbarie su un oggetto antico, contro le enormi distruzioni del patrimonio artistico e storico compiute dal governo cinese al tempo della rivoluzione culturale.
Comunque, Ai Weiwei diventava sempre più famoso. Partecipò a manifestazioni come la Biennale di Venezia e Documenta Kassel, recuperando antiche tradizioni artigianali, come la lavorazione del legno, la costruzione di aquiloni, la porcellana, realizzando grandi installazioni che mescolavano tradizione orientale e modi dell’arte occidentale. Aprì anche uno studio di architettura e collaborò, come consulente artistico, al progetto del famoso stadio olimpico di Pechino a forma di nido d’uccello, salvo disertarne l’inaugurazione per protestare contro la gestione dei lavoratori e della popolazione in funzione delle Olimpiadi. Iniziò, così, un periodo di contrasti col governo cinese, che Ai Weiwei criticava per l’autoritarismo, la negazione delle libertà civili. L’artista esercitava le sue denunce utilizzando la rete, Twitter, Instagram, il suo blog, denunciando anche i controlli opprimenti che subiva, le censure, i boicottaggi del suo lavoro. Lo scontro si acuì nel 2008, quando, a seguito del tremendo terremoto del Sichuan, Ai Weiwei accusò le autorità di responsabilità nella morte di migliaia di persone, in particolare studenti, rimasti sepolti in edifici scolastici costruiti con materiali scadenti. Le accuse sul web si tradussero anche in opere, come una grande installazione, vista anche a Venezia, realizzata con migliaia di tondini metallici che avevano ceduto negli edifici o un grande dragone realizzato assemblando zaini simili a quelli degli studenti morti. L’artista venne anche picchiato durante un processo e questo gli causò una emorragia cerebrale.
Intanto raggiunse l’apice della fama con una grandiosa installazione, alla Tate Modern a Londra, di milioni di semi di girasole realizzati a mano, in porcellana, da artigiani cinesi, simbolo della povertà e della fame determinate dalle errate riforme del passato governo maoista ma anche della bellezza creata dal lavoro artigiano contro la produzione seriale corrente. Lo scontro col potere si acuì, con controlli sempre più opprimenti, censure, l’ordine di distruzione di uno studio appena ultimato a Shangai, fino all’arresto, nel 2011, con l’accusa, costruita, di evasione fiscale, la detenzione per ottantun giorni in un luogo segreto, in condizioni di grave oppressioni psicologica, che Ai Weiwei ha documentato in una serie di diorami presentati a Venezia, in cui ricostruiva, dentro diverse scatole, le scene della sua detenzione (interrogatori, bisogni corporali, sonno e così via, sempre sotto il controllo fisico dei poliziotti). Il rilascio, anche a seguito di una grande mobilitazione internazionale, fu seguito da una specie di arresti domiciliari, con controlli asfissianti, divieto di uso della rete e di parlare con la stampa.
Nel 2015 gli è stato reso il passaporto e l’artista ha iniziato una grande attività espositiva in tutto il mondo. In Europa, ha visto il dramma dei migranti e ha deciso di farne un nuovo campo di intervento, usando l’arte per sensibilizzare su questo problema epocale. Ha rivestito le finestre di due lati del piano nobile di Palazzo Strozzi di gommoni di salvataggio, così come aveva rivestito le colonne del Konzerthaus di Berlino con i giubbotti salvagente recuperati all’isola di Lesbo. Ovviamente questi interventi hanno ricevuto la disapprovazione delle anime belle che non accettano quel che considerano dissacrazione dell’arte del passato per parlare dei problemi del presente.
La mostra di Firenze, che si intitola “Libero”, investe tutta l’area di Palazzo Strozzi: le facciate coi gommoni; nel cortile una grande installazione a forma di ala realizzata con cucine solari e bollitori: una libertà costretta, difficile; nei locali sotterranei, la cosiddetta Strozzina, il periodo statunitense, meno conosciuto, molto interessante; infine, al piano nobile, grandi installazioni, alcune storiche e altre recenti, dove comunque unisce agli elementi di denuncia notevoli contenuti estetici e l’omaggio al grande artigianato cinese. Tra i lavori recenti, anche qui in evidente omaggio a Warhol, una serie di ritratti di personaggi che si sono opposti al potere, come Galileo, Dante, Savonarola, realizzati con i mattoncini Lego.
Secondo me è un’ottima mostra. Non serve spendere 5 euro per l’audioguida perché le didascalie sono esaustive e il senso dei lavori risulta chiaro. Palazzo Strozzi è un bellissimo palazzo rinascimentale in pieno centro di Firenze, a dieci minuti a piedi dalla stazione di Santa Maria Novella e con la nuova gestione promette una grande attenzione al contemporaneo.
Fino al 22/01/2017. Orari 10-20 tutti i giorni, giovedì fino alle 23. Il biglietto intero costa 12 euro, 9,50 ridotto Arci, Coop e altre, 8,50 per i clienti del gruppo Intesa Sanpaolo (basta un bancomat) e 2x1 per i titolari Cartafreccia con biglietti delle frecce per Firenze antecedenti al massimo 5 giorni.

SAURO SASSI


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