LA TERRA INQUIETA ALLA TRIENNALE DI MILANO: COME PUO’ RISPONDERE L’ARTE ALLE ODIERNE MIGRAZIONI


MILANO IN QUESTO PERIODO OSPITA MOSTRE ESTREMAMENTE INTERESSANTI E NULLA SFUGGE AL NOSTRO SAURO SASSI, ECCO A VOI UN'ALTRA BELLISSIMA RECENSIONE DI UNA MOSTRA CHE INVITIAMO A VEDERE

LA TERRA INQUIETA ALLA TRIENNALE DI MILANO: COME PUO’ RISPONDERE L’ARTE ALLE ODIERNE MIGRAZIONI



A Milano, grazie all’attività di alcune fondazioni ed enti privati, l’arte contemporanea è viva e presente come in nessun’altra città d’Italia. Mentre la Fondazione Pirelli e la Fondazione Prada dispongono di spazi propri in cui svolgono la propria attività, la Fondazione Trussardi ha scelto di realizzare le proprie mostre in spazi sempre diversi - e spesso anche poco conosciuti - della città. Negli ultimi anni, però, la Fondazione, che si avvale della direzione artistica di Massimiliano Gioni, uno dei più importanti giovani curatori internazionali -  direttore del New Museum of Contemporary Art di New York, già direttore della Biennale di Venezia e di quelle di Berlino e Gwangju in Sud Corea, oltre che di numerose altre manifestazioni d’arte – ha scelto di occupare, con grandi mostre, spazi più istituzionali. Così, nell’anno dell’Expo, al Palazzo Reale è stata allestita “La Grande Madre”, sul tema universale della maternità, mentre, attualmente, gli spazi gloriosi della Triennale ospitano “La Terra Inquieta”, titolo derivato da una poesia dello scrittore caraibico Edouard Glissant, che si occupa del fenomeno delle migrazioni e delle tante forme di sopraffazione che sono compiute verso popoli, etnie, religioni nella complice indifferenza di quell’Occidente che dovrebbe coltivare  democrazia, libertà, giustizia e invece propugna egoismo politicistico e completa assenza di un orizzonte politico.
Sono stati coinvolti oltre sessanta artisti, dalle provenienze più varie, da Albania, Algeria, Bangladesh, Egitto, Ghana…, fino a rappresentare quaranta paesi. Ogni artista ha affrontato il tema dal punto di vista suo, della sua esperienza e del luogo da cui proviene, ma alla fine le tante storie e i diversi modi di raccontarle arrivano a costituire un’unica narrazione, che parla del presente in questo mondo, globalizzato ma attraversato da paure e risentimenti che portano a chiusure, a forme feroci di negazione di un processo storico che non potrà comunque essere arrestato. Il discorso affronta però anche il passato, rivela, attraverso le fotografie di maestri come Lewis Hine, la storia dei migranti italiani a inizio Novecento, quando a milioni partirono per Nord e Sud America. La documentazione fotografica è integrata anche dalle copertine della Domenica del Corriere, coi disegni che illustravano le loro tristi condizioni e i naufragi che a volte li portavano in fondo al mare, come i loro fratelli oggi. A riportarci in modo lancinante al presente, l’esposizione di oggetti, recuperati in mare, di persone annegate al largo di Lampedusa: misere borse, effetti personali, fototessere sorridenti, biglietti scritti da inviare ai parenti o brevi diari, santini, oggetti di fede e di preghiera. Viene presentata anche una lista di 29586 morti documentate di migranti dovute, si scrive, alle politiche restrittive della fortezza Europa. Inoltre, le foto impressionanti dei vincitori del premio Pulitzer 2016 nel settore “Breaking News”: una documentazione della rotta balcanica e, in particolare, il lavoro di due fotografi che per quaranta giorni hanno viaggiato con una famiglia siriana dalla Grecia, per terra, fino alla Svezia: un modo per affermare che, dietro le foto e i filmati che mostrano masse indifferenziate di persone, ci sono individui, storie personali e famigliari che sono simili ma sempre diverse. Il gruppo “Forenses Oceanography” usa diverse tecnologie per indagare le violazioni di diritti umani nelle varie zone di conflitto dei nostri tempi, cercando di denunciarne le responsabilità. Il lavoro presentato in mostra si riferisce a quelli che vengono denominati “crimini di non assistenza”, ricostruendo, attraverso mappe di sorveglianza, tracciati di percorsi, testimonianze dei sopravvissuti, la storia di un barcone che, nel 2011, partì da Tripoli con 72 migranti a bordo e, quando le correnti la riportarono indietro dopo due settimane, ne ospitava solo nove. La guardia costiera italiana, quella maltese e le forze Nato ricevettero diverse richieste di aiuto quando si esaurì il carburante ma nessuno intervenne.
Se i documenti sono fondamentali per provare la portata degli avvenimenti e denunciare l’atteggiamento di quei paesi che vorrebbero definirsi patrie di civiltà, l’opera degli artisti ci sollecita al pensiero, rende in qualche modo più universali e profonde le considerazioni su ciò che accade in questo momento storico nel mondo. Gli artisti presenti alla mostra sono tutti molto conosciuti in campo internazionale; molti provengono da quei paesi che sono al centro dei fenomeni migratori, altri, invece, appartengono al mondo di chi dovrebbe ricevere e si pongono quindi, poeticamente e polemicamente, dal nostro punto di vista, a interrogare e denunciare la nostra assenza di umanità e di senso della storia. Così, a inizio mostra, lo svizzero Thomas Hirschorn presenta due grandi collages in cui inserisce immagini della siriana Aleppo, città di grandi radici storiche, distrutta dalla guerra civile, con immagini del Colosseo, moltiplicato da una miriade di monete da cinque centesimi, come a ricordarci che anche la civiltà romana è stata distrutta e anche noi in futuro saremo insidiati da nuovi barbari. Il bulgaro Pravdoliub Ivanov installa sul corridoio le grandi bandiere dei Paesi fondatori dell’Unione Europea, che però sono state rese tutte uguali perché ricoperte di fango. Il siriano Manaf Halbouni, che vive in Germania, col lavoro “Nowhere is home”, un’auto stipata con i suoi effetti personali, parla dell’insicurezza di chi si è rifugiato in un altro Paese e vive nel timore di dover nuovamente ripartire. Il belga Francis Alys è andato sulle due sponde dello stretto di Gibilterra, dove Africa e Europa sono più vicine, e ha filmato due file di bambini, marocchini e spagnoli, che entrano in acqua e, con in mano barchette giocattolo costruite con i loro sandali, nuotano cercando simbolicamente di unire i tredici chilometri di mare che separano i due continenti. La marocchina Bouchra Khalili, nel lavoro “The Mapping Journey Project”, ha intervistato persone che hanno percorso diverse rotte migratorie, chiedendo loro di tracciare, con un pennarello su una carta geografica, i percorsi che hanno seguito: anche qui si cerca di dare un senso alle diverse storie individuali, creando però una polifonia di voci e segni. L’inglese Phil Collins pone un problema: fino a che punto l’informazione, in tutte le sue manifestazioni, interpreta in modo corretto il dramma epocale dei profughi e non lo usa cinicamente per dare spettacolo anche del dolore? Nel video “How to make a refugee” filma alcuni reporter che fotografano una famiglia di fuggiaschi dal Kosovo, cercando però di modificare il contesto dell’ambientazione per renderlo più drammatico e chiedendo a un ragazzo di spogliarsi per mostrare una cicatrice, che possa colpire i sensi di chi vedrà il servizio. Un altro tema di diritti negati, che si trascina, purtroppo da decenni, è quello dei palestinesi. Khaled Jarrar mostra nei suoi film lo stato di prostrazione in cui il popolo di Palestina è costretto, le umiliazioni quotidiane cui sono sottoposti solo per potersi muovere su un territorio che si configura più come una grande prigione. La “Gulf Labor Artist Coalition” denuncia le condizioni intollerabili in cui sono ridotti i lavoratori stranieri che lavorano alla costruzione del Guggenheim Museum ad Abu Dhabi, ma il discorso potrebbe allargarsi a tutti i lavoratori stranieri nei paesi del golfo Persico. Un altro esempio di discriminazione riguarda il popolo Rom, nei confronti del quale non si esercita minimamente il senso di colpa che gli europei hanno maturato nei confronti degli ebrei, anche se gli stessi zingari sono stati sterminati nei campi di concentramento. La mostra propone l’esperienza di un grande artista italiano, Giuseppe Pinot Gallizio, che viveva ad Alba e, oltre a essere farmacista, faceva anche parte del consiglio comunale (anarchico e comunista). Quando il sindaco di destra decise di negare ai Rom il diritto di accamparsi sul suolo pubblico, Gallizio offrì loro un terreno di sua proprietà e sostenne pubblicamente i loro diritti, tanto che gli zingari gli attribuirono il soprannome di loro re.
La mostra, molto vasta, inizia al pianterreno e prosegue al primo piano con alcune installazioni e opere di grande impatto. Vorrei concludere segnalando due artisti che propongono in modi molto diversi ma altrettanto poetici la mappa del mondo. Di Alighiero Boetti, prematuramente morto nel 1994, una grande immagine del mondo che appartiene alla serie, bellissima, di arazzi che l’artista faceva tessere da donne afgane. Questa, del 1992, fu realizzata in Pakistan da afgane che vi si erano rifugiate a seguito dell’invasione russa e una iscrizione intorno al disegno ricorda la tristezza di quel tempo. La mappa di Mona Hatoum, libanese di origine palestinese, occupa invece un vasto spazio sul pavimento ed è realizzata con biglie trasparenti. Come a dire, il mondo è bello ma fragile e anche pericoloso e bisogna viverlo con coscienza. Si termina, come all’inizio, con un’opera di Tomas Hirschorn, una tela con l’iscrizione “1 man = 1 man”.
Sauro Sassi

LA TERRA INQUIETA
IN COLLABORAZIONE CON LA FONDAZIONE TRUSSARDI, a cura di Massimiliano Gioni
MILANO, PALAZZO DELLATRIENNALE, FINO AL 20 AGOSTO 2017
ORARI: MARTEDI / DOMENICA 10,30 – 20,30
VIALE ALEMAGNA 8 – METRO LINEE 1 E 2 FERMATA CADORNA TRIENNALE
DALLA FERMATA METRO, ALCUNE CENTINAIA DI METRI A PIEDI
BIGLIETTO EUR 8, RIDOTTO EUR 6,50 (FINO A 26 ANNI E OVER 65, FAI, TOURING)





Post a Comment

Nuova Vecchia