IN QUESTO TORRIDO LUGLIO PRESI DAI DISASTRI NATURALI E DA QUELLI CREATI DALL'UOMO TRA SICCITA' E INCENDI, SAURO SASSI CI PORTA A DISTRARRE LA MENTE SULL'ARTE E ANCORA A VENEZIA
VENEZIA AL TEMPO DELLA
BIENNALE ARTE. PALAZZO QUERINI STAMPALIA: ANSELMO E ELISABETTA DI MAGGIO
In questo periodo, come ho già scritto, Venezia diventa la capitale italiana
dell’arte contemporanea (anche capitale mondiale, insieme alla tedesca Kassel) e in tutta la città è possibile
vedere mostre spesso di alto livello. Dopo aver parlato dell’isola di San Giorgio e di Damien Hirst a Palazzo Grassi e Punta della
Dogana, vorrei proporre un’altra
visita di sicuro interesse.
FONDAZIONE
QUERINI STAMPALIA: GIOVANNI ANSELMO. ELISABETTA DI MAGGIO. La sede della Fondazione è uno dei luoghi più
affascinanti di Venezia: palazzo cinquecentesco, appartenuto alla nobile
famiglia Querini, divenne, nel 1869,
su volontà dell’ultimo discendente, sede di una biblioteca pubblica, aperta a
tutti e in tutti i giorni dell’anno, compresi gran parte dei festivi, e, nei
giorni feriali, fino alla mezzanotte. Tutti gli studenti veneziani la
frequentano e consultano alcuni dei 400.000
libri della sua dotazione. Il palazzo conteneva anche una ricca quadreria, comprendente soprattutto
pittori di area veneta, con una grande quantità di opere di Pietro Longhi, che descrivevano la vita
nel Settecento a Venezia, nonché, opera famosissima, la “Presentazione al Tempio” di Giovanni
Bellini. I quadri sono attualmente collocati al piano nobile e sono distribuiti in stanze ricche di splendidi arredi che testimoniano la vita e i
gusti delle nobili famiglie veneziane. Questo palazzo, già bellissimo, è stato
oggetto di importanti cure e restauri e, in particolare, l’accesso e il piano
terreno consentono di godere del risultato dell’intervento di quello che, a mio
modesto parere, è stato il migliore
architetto italiano del Novecento, il veneziano Carlo Scarpa. Come se non bastasse, nell’ultima parte del secolo il
palazzo è oggetto di interventi di altri due grandi architetti contemporanei: Valeriano Pastor, allievo di Scarpa e, soprattutto, il ticinese Mario Botta, che ha allargato gli
spazi, intervenendo su edifici contigui acquisiti dalla Fondazione,
ridisegnando i servizi, biglietteria, book shop, caffetteria e inserendo una
nuova scala. L’intervento di Botta
ha il suo fulcro in una corte coperta che funge da vestibolo, punto di sosta e
di passaggio. Botta dialoga con Scarpa, creando un riferimento
irrinunciabile per chi si interessi di architettura moderna. Scarpa, al piano terreno, è intervenuto
con tutto il rigore e la poeticità del suo mestiere, confrontandosi con quelli
che sono i tipici caratteri di Venezia: il ponte
di accesso, piccolo e sobrio, molto più bello di quello, pretenzioso e
disfunzionale, di Calatrava alla
stazione; l’acqua, che entra attraverso
il canale che costeggia l’ingresso, attraverso paratie, e che gioca con la luce e ritorna nel bellissimo giardino, con un piccolo canale e una vasca centrale. I
materiali sono quelli tipici di Scarpa:
cemento, soprattutto, mosaico, pietra d’Istria. Gli spazi sono perfetti, Scarpa poteva passare notti intere a
ripensare una linea, un angolo. I quattro
ambienti al pianterreno e il confinante
giardino rappresentano un capolavoro di architettura, che unisce la grande
lezione di Le Corbusier e Frank Lloyd Wright con la cultura giapponese, in particolare nel rapporto con
la natura. La Fondazione, da anni, desidera mantenere vivi e vitali gli spazi
architettonici e museali e invita quindi
artisti contemporanei a confrontarsi con essi. I risultati sono sempre
stati di grande livello Negli spazi di
Scarpa, attualmente, interviene Giovanni
Anselmo, ottantatreenne, esponente di quel movimento, detto “Arte Povera”, che è stato il più
importante nell’arte italiana tra i secondi anni Sessanta e la fine del secolo.
Anselmo conduce un discorso che
definirei di minimalismo poetico,
utilizzando materiali della natura e mettendoli in relazione con lo spazio che
li ospita ma anche con lo spazio infinito che tutto contiene e con l’energia
che governa lo stare delle cose e dell’uomo nel mondo. Spesso in Anselmo il tramite tra spazio, uomo,
universo è la parola e i titoli dei suoi lavori o le parole che gli stessi
contengono conferiscono quelle suggestioni in più che l’evocazione poetica può
apportare. Nello specifico, l’artista, visti gli spazi di Scarpa, ha giustamente pensato che essi stessi fossero un’opera d’arte
con cui lui avrebbe dovuto relazionarsi con grande rispetto e senza
stravolgerli in alcun modo. Così ha deciso che le pareti dovevano non essere
toccate, per mantenerne la purezza, e lui avrebbe dovuto confrontarsi con
l’orizzontalità dei pavimenti. Nei quattro
spazi ha disposto quattro opere:
un “Senza titolo” del 1967
consistente in una lastra di plexiglas tenuta incurvata da un tondino in
acciaio che le permette di essere appoggiata in verticale sul pavimento. Come
tutti i suoi lavori, è apparentemente molto semplice ma contiene molti
significati: il tondino sviluppa e trattiene energia per mantenere in tensione
il plexiglas: se si togliesse, l’opera cadrebbe; suggerisce un’idea di
equilibrio instabile e al contempo, grazie alla trasparenza del materiale, di
grande leggerezza; la mancanza di una base di supporto e ancora la trasparenza
rendono l’opera quasi invisibile, come se, in realtà, la scultura fosse la luce
che attraversa e si rifrange nel plexiglas. Il secondo lavoro si intitola “Invisibile” ed è una lastra di granito
su cui era stata incisa questa parola. Poi è stata tagliata, togliendo il
suffisso “in”, trasformando l’invisibile
in visibile: così labile, pensa Anselmo,
il confine tra ciò che si vede e ciò che è visibile ma non si riesce a vedere.
In altra stanza l’opera “Dove le stelle
si avvicinano di una spanna in più”, sei blocchi di granito disposti sul
pavimento con incise queste parole. La disposizione dei blocchi dialoga con gli
spazi calcolatissimi di Scarpa, il
visitatore è invitato a salire e
percorrere l’opera per vedere la
stanza da un altro punto di vista ma anche per avvicinarsi alle stelle,
sentendosi parte dell’universo. L’ultima sala in basso contiene “Mentre oltremare appare verso Sud-Est”
Qui si presenta un altro elemento ricorrente nel lavoro di Anselmo: l’ago magnetico,
inserito in un blocco di pietra, mentre l’altro blocco è dipinto nella parte
superiore di blu oltremare. Ancora una volta Anselmo ci invita a pensare che noi siamo dentro l’universo, che
anche quando sembriamo fermi siamo circondati da forze, energia che ci
attraversa. L’ago indica una direzione, sempre la stessa, il nord, la pietra è
posizionata verso sud est: vento di scirocco, desiderio di fuga e di
infinito. Ultima opera di Anselmo,
al piano nobile, si intitola “Particolare”
e consiste semplicemente in un proiettore che proietta proprio questa parola,
la quale può quindi vedersi sulla parete, in un punto preciso, oppure, usando
il proprio corpo come schermo, riferirsi al visitatore. Un particolare delimita
quindi un luogo, uno spazio, un tempo. Non è mai uguale perché la vita è
flusso. Ancora una volta Anselmo
coniuga semplicità e profondità, come la grande poesia.
Al piano nobile
del Palazzo, a confrontarsi con gli arredi e le opere d’arte antica, Elisabetta Di Maggio, artista che vive
a Venezia, nata nel 1964 e quindi
molto più giovane di Anselmo, ma che
ovviamente non può prescindere dalla sua lezione e da quella degli artisti
dell’Arte Povera, anche se la
sviluppa, giustamente, in modi autonomi e originali. La Di Maggio aveva nel 2005
realizzato un’opera permanente in una stanza, durante importanti restauri che
miravano a riportare gli originali colori e decori nelle varie sale. Così,
usando un bisturi, che è il suo
strumento ricorrente, ha lavorato su una parete che era stata dipinta di bianco
e, incidendola, ha fatto emergere il colore originale sottostante,
un bel rosa veneziano, realizzando una specie di arazzo, rifacendosi ai disegni
di antiche tappezzerie. In aggiunta, ha ora realizzato altre opere che
lasciano, come lei dice, altre tracce
in questo piano del Palazzo. L’intervento più evidente lo ha realizzato nel salone principale, detto portego, il primo che si incontra, che
era dedicato al ricevimento degli ospiti. Qui la Di Maggio ha inteso portare qualcosa che rompesse la sensazione di tempo cristallizzato propria di un Museo d’arte antica, qualcosa che
portasse una specie di germinazione, di possibile vita in evoluzione. Così, rifacendosi ai capricci seicenteschi,
rappresentazioni di antiche rovine ricoperte di vegetazione, ha installato
delle piante d’edera che durante tutta la mostra crescerà e ricoprirà la sala.
Ha però aggiunto, a questa presenza viva, altre piante di edera che sono state
immerse in un bagno di glicerina che
le ha bloccate, togliendo la clorofilla e conferendo loro un aspetto chiaro e
quasi dorato e rendendo le foglie morbide; foglie che, poi, l’artista ha inciso
col bisturi seguendone le venature e realizzando ancora una sorta di ricamo,
attraverso cui passa la luce, giocando sull’idea di visibile e invisibile e
così dialogando col lavoro di Anselmo.
Bisogna poi visitare le splendide sale del museo per ritrovare le altre tracce
che la Di Maggio vi ha disseminato,
a partire da quella che ospita il quadro più famoso, la “Presentazione al Tempio” di Giovanni
Bellini, ai piedi del quale, su una sedia, l’artista ha disposto quella che
a prima vista potrebbe sembrare una cuffia, che richiama le fasce che appaiono
nel dipinto. Si tratta di una garza medicale per la testa che la Di Maggio ha intriso di porcellana
liquida e sulla quale, sempre col bisturi, ha inciso la superficie seguendo le
trame del tessuto. Ancora un lavoro difficilissimo, maniacale, che ha a che
fare col tempo. Lasciando ai
visitatori il divertimento di trovare gli altri lavori nel corso della visita,
termino citandone due: “Traiettoria di
volo di farfalla” che riporta su
una superficie piana una sequenza di spilli da entomologo che tracciano quello
che è il percorso, apparentemente casuale ma in realtà determinato da precisi
elementi fisici e dinamici, che una farfalla compie per raggiungere la propria
meta. Infine un lavoro “Senza titolo”
consistente in 45 metri di carta velina che l’artista, nel corso
di dieci anni, ha intagliato col bisturi ripetendo ossessivamente lo stesso
motivo. La carta è poi stata avvolta a formare un cilindro, che può ricordare
le linee di Piero Manzoni, fogli che
venivano avvolti in contenitori cilindrici, che giunsero alla immaginifica
linea di lunghezza infinita. O forse, con più consonanza al lavoro di tanti artisti contemporanei sul tempo,
quest’opera può rimandare a Roman
Opalka, che durante tutta la sua vita ha fotografato
ogni giorno il suo volto, alle sequenze numeriche infinite di Hanne Darboven, On Kawara e dello stesso Opalka.
Ancora l’arte contemporanea ci interroga, chiedendoci
di abbandonare certezze e luoghi comuni, pensando il tempo, l’energia, lo
spazio, l’universo in cui siamo buttati. Avvicinandoci alle stelle di una
spanna in più.
Sauro Sassi
VENEZIA
FONDAZIONE QUERINI STAMPALIA: GIOVANNI ANSELMO. ELISABETTA DI MAGGIO. MARIA
MORGANTI. FINO AL 24 SETTEMBRE 2017.
SEDE: SANTA
MARIA FORMOSA CASTELLO 5252. RAGGIUNGIBILE A PIEDI DA RIALTO O DA SAN MARCO,
CIRCA 10 MINUTI, PERCORSO INDICATO.
ORARI MOSTRE
E MUSEO: DA MARTEDI’ A DOMENICA, 10-18, LUNEDI’ CHIUSO.
IL BIGLIETTO
PER IL MUSEO E LE MOSTRE TEMPORANEE COSTA 10 EURO, RIDOTTO 8 DA 65 ANNI, CTS,
FAI, TOURING CLUB
IL MUSEO HA
UN OTTIMO BOOKSHOP, CON PROPOSTE ANCHE DI OGGETTI DI DESIGN MOLTO BELLI E ORIGINALI.
UNA PIACEVOLISSIMA CAFFETTERIA, VICINO AL GIARDINO DI CARLO SCARPA. LA
CAFFETTERIA E’ STATA DI RECENTE OGGETTO DI UN INTERVENTO PERMANENTE DELL’ARTISTA
MARIA MORGANTI CHE, PARTENDO DAI COLORI DI UN FIORE TRA I CAPELLI DI UNA
MODELLA RAPPRESENTATO IN UN QUADRO DEL MUSEO, HA IMMAGINATO UNA SEQUENZA
COLORATA CHE, RIPORTATA SU TESSUTO DALLA FAMOSA AZIENDA TESSILE BONOTTO, HA
RIVESTITO LE PARETI, CON UN’OPERA CHE RENDE L’AMBIENTE ANCORA PIU’ BELLO.
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