LA BIENNALE ARTE DI VENEZIA: 1’ PARTE IL PADIGLIONE CENTRALE AI GIARDINI

SI TORNA DALLE FERIE AGOSTANE PER CHI HA POTUTO FARLE E SAURO SASSI PUNTUALMENTE CI AGGIORNA DELLE NOVITA'  PER LA DELIZIA DI CHI NON E' MAI ANDATO VIA

LA BIENNALE ARTE DI VENEZIA: 1’ PARTE IL PADIGLIONE CENTRALE AI GIARDINI



Vorrei proporre una visita alla Biennale d’Arte di Venezia perché, anche se aperta da metà maggio, penso che i mesi di settembre e ottobre siano i migliori per una gita e possibilmente un soggiorno in questa splendida città e, inoltre, per gli amanti del cinema, potrebbe essere abbinata con la Biennale Cinema, al Lido dal 30 agosto al 9 settembre. Ne parlero' in piu' articoli, iniziamo con il Padiglione Centrale ai Giardini, poi seguiranno i Padiglioni Nazionali, sempre ai Giardini e l'ultimo illustrera'  l’altra sede principale: l’Arsenale.
La Biennale Arte è la più antica tra le mostre internazionali dedicate all’arte contemporanea. La prima edizione risale al 1895 (stesso anno della nascita del cinema) e fin da subito fu deciso di aprire la mostra ad artisti italiani e stranieri. Come luogo per ospitarla furono scelti i Giardini del Sestiere di Castello, il più orientale e il più verde dei sestieri veneziani, prossimo all’isola del Lido. All’interno del giardino fu realizzato un primo edificio per accogliere l’esposizione che, nei primi anni, ospitò soprattutto l’arte delle Secessioni di Monaco e di Vienna (presto fu esposto Klimt) e del Simbolismo, anche italiano, con Segantini e altri di cui si è persa memoria. Solo successivamente si riconobbero le grandi novità francesi. Dal 1907 inizia la fase che portò la zona dei Giardini ad essere come la vediamo oggi: si chiese alle Nazioni partecipanti, un po’ sull’esempio delle grandi esposizioni universali, di realizzare un proprio padiglione. Iniziò il Belgio, poi l’Ungheria, la Baviera, la Gran Bretagna, la Francia, la Svezia, la Russia. Si configurò così nel tempo l’assetto attuale, con un grande padiglione centrale (che si chiamò Italia) e quelli delle altre nazioni, disposti lungo diverse direttrici all’interno dei Giardini. I padiglioni, a partire da quello italiano, furono spesso rimaneggiati o rifatti, chiamando architetti e artisti a rappresentare, nella progettazione, una specie di spirito nazionale che si evolveva nel tempo. Per esempio il Padiglione Italia ha una cupola centrale che venne affrescata nel 1909 da Galileo Chini, artista e decoratore allora di gran fama, con dipinti che rappresentavano allegoricamente la storia dell’arte: furono ricoperti nel 1928 e solo nel 1986 donati nuovamente alla visione dei visitatori. E’ divertente osservare i diversi edifici , dove si passa da architetture pompose e banali come quelle neo palladiane del padiglione degli Stati Uniti a quello ancora improntato a una certa grandeur coloniale della Gran Bretagna all’imponenza nazistoide della Germania, ad autentiche meraviglie, come quello olandese di Rietveld, aderente al gruppo De Stijl, quello dei Paesi Nordici di Sverre Fehn, che rappresenta splendidamente lo stretto rapporto degli scandinavi con la natura, quello austriaco di Josef Hoffman, quello svizzero di Bruno Giacometti, fratello dello scultore Alberto, quello del Venezuela, del grande architetto veneziano Carlo Scarpa, purtroppo in stato di notevole degrado. Senza contare il nome di Alvar Aalto che ha realizzato, forse senza grande impegno, il padiglione finlandese. In tutto i Giardini di Castello contengono 30 padiglioni, ultimo quello realizzato dalla Corea del Sud. Predominano largamente i paesi europei, con l’aggiunta di Stati Uniti, Australia, Canada, Israele, Brasile, Venezuela, Uruguay, Giappone, Corea del Sud, Egitto. Tutte le altre nazioni che vogliono partecipare sono state collocate all’Arsenale oppure in vari edifici di Venezia, spesso palazzi storici molto belli, e la cui visita è ora consentita e gratuita.
In un paese come l’Italia, che nel Novecento ha sempre avuto un atteggiamento chiuso e conservatore nei confronti dell’arte del proprio tempo (e non solo a destra, basti pensare alle intemerate di Togliatti sull’arte non figurativa) la Biennale di Venezia ha sempre rappresentato una felice eccezione, aprendosi alle migliori novità internazionali e permettendo anche ai poveri connazionali e agli studenti di essere per qualche mese al centro della scena artistica universale. Basti pensare che a Venezia, nel 1964, si affermò definitivamente la Pop Art, col Leone d’Oro conferito all’americano Rauschenberg. La struttura attuale della Biennale venne configurandosi con l’introduzione del curatore, figura professionale fondamentale nell’attuale mondo dell’arte. Il curatore riceve l’incarico di occuparsi delle grandi mostre, elabora una base teorica che tenda a concentrare l’esposizione su determinati argomenti e aree tematiche e convoca gli artisti che ritiene possano concorrere a questo suo discorso. A partire dagli anni Sessanta emersero figure di curatori leggendari che determinarono grandemente lo sviluppo dell’arte contemporanea, a partire dallo svizzero Harald Szeeman che introdusse i concetti di arte come comportamento,   processo creativo, relazione tra opera, spazio, spettatore. Il curatore viene nominato dalla Fondazione Biennale e solitamente cambia ad ogni edizione. Inizialmente era italiano, poi, anche qui, è prevalsa una linea internazionale e ora molto spesso è straniero. Evidentemente ogni curatore porta la sua idea dell’arte e quindi possono di volta in volta prevalere impostazioni più politicizzate o conservatrici o che enfatizzino determinate aree geografiche di produzione artistica o temi particolari. Il curatore allestisce attualmente una grande mostra tematica con artisti di tutto il mondo, che viene ospitata ai Giardini, nel grande Padiglione Centrale, e prosegue negli spazi enormi del vicino Arsenale. I Padiglioni Nazionali, che sono ai Giardini intorno a quello centrale, in parte all’Arsenale (ad esempio la Cina) e in parte sparsi nella città,  (complessivamente sono presenti 82 nazioni) hanno a loro volta un curatore, nominato dalle istituzioni delle rispettive nazioni, che sceglie in autonomia gli artisti da proporre. Ovviamente, visti gli spazi a disposizione più ridotti, spesso i padiglioni nazionali ospitano le opere di un singolo artista o tutt’al più di pochi. Va rilevato che il padiglione dedicato all’Italia già da parecchie edizioni non occupa più l’edificio centrale dei Giardini ma si trova all’Arsenale.
La Biennale di Venezia assegna dei premi (i soliti Leoni).  Il miglior artista è risultato il tedesco Franz Erhard Walther (esposto all’Arsenale), miglior padiglione quello della Germania (ai Giardini), una menzione al padiglione del Brasile (ai Giardini), miglior artista emergente l’egiziano Hassan Khan, con una bellissima installazione sonora all’Arsenale, una menzione allo statunitense Charles Atlas (all’Arsenale) e al kosovaro Petrit Halilaj (sempre all’Arsenale e anche al Padiglione Centrale ai Giardini) e il Leone d’oro alla carriera alla performer americana Carolee Shneeman.
Quest’anno la cura della Biennale Arte è stata affidata alla francese Christine Macel, studiosa, giornalista, curatrice capo al Centro Pompidou. Come accade da diverse edizioni il curatore attribuisce all’esposizione un titolo, che vuole rappresentare la linea teorica lungo la quale ha inteso allestire la mostra. Così l’afro americano Okwui Enwezor aveva connotata la passata edizione in modo fortemente politico, intitolandola “All the world’s futures”, affrontando i temi di un mondo in grande trasformazione e della necessità, anche attraverso l’arte, di concorrere criticamente a determinarne il miglior sviluppo per tutti gli uomini. Aveva messo al centro della mostra un libro, “Il Capitale” di Karl Marx, che era stato letto integralmente, giorno dopo giorno, e aveva evocato il quadro di Paul Klee “Angelus Novus”, nell’interpretazione di Walter Benjamin: l’angelo della storia che avanza verso il futuro spinto da una tempesta e con lo sguardo rivolto indietro, alla storia, che è una storia di rovine. L’edizione precedente era stata intitolata dall’italiano Massimiliano Gioni “Il Palazzo Enciclopedico”, ispirandosi al progetto utopista di un emigrante italiano, Marino Auriti, che aveva immaginato un enorme edificio che potesse contenere tutto il sapere del mondo. Anche Gioni aveva posto un libro al centro dell’esposizione: il “Libro Rosso” di Carl Gustav Jung. Quindi si poneva l’attenzione sulla spiritualità, sulla capacità di tutti gli uomini, non solo degli artisti, di immaginare mondi, di attingere alla dimensione spirituale per andare oltre la banalità e le brutture correnti. La Macel ha invece intitolato la sua mostra “Viva Arte Viva”, e propone una lettura che ponga al centro l’artista, il cui scopo non dovrebbe essere fornire risposte concrete ai problemi del mondo ma proporre la propria individualità, il proprio essere altro nelle sfere dell’arte come modello per un miglioramento possibile. In sostanza una rivendicazione di autonomia e una riaffermazione del ruolo dell’artista, che naturalmente propone le proprie visioni e può essere inserito in una griglia di riferimenti artistici, storici culturali. La Macel ha immaginato di suddividere la mostra in nove capitoli, o universi, o trans padiglioni: due nel Padiglione Centrale ai Giardini e sette nell’enorme spazio dell’Arsenale (dove migliaia di lavoratori costruivano le navi della repubblica veneziana). Il visitatore dovrebbe attraversare questi spazi come se scorresse i capitoli di un grande libro sull’arte e sui vari modi, intenti, declinazioni con le quali gli artisti danno vita alle proprie visioni. La curatrice ha anche voluto, accanto a nomi molto conosciuti e affermati, dare spazio ad artisti che non hanno mai esposto in Biennale e recuperarne alcuni, anche già morti, che nei decenni passati non hanno ricevuto adeguati riconoscimenti. I due capitoli svolti al Padiglione Centrale ai Giardini si intitolano Padiglione degli Artisti e dei Libri e Padiglione delle Gioie e delle Paure. Nel primo si pone al centro il fare artistico e i tempi dell’artista, che sono spesso antitetici a quelli della produzione nella nostra società. L’artista necessita anche di fasi di inoperosità (“otium” romano) per meditare, pensare l’opera. Il tempo di inattività non è quindi tempo sprecato ma indispensabile per la successiva realizzazione di quanto la propria immaginazione gli ha suggerito. Così, dopo aver incontrato sulla parete esterna di accesso i grandi drappi colorati dello statunitense Sam Gilliam, omaggio a Yves Klein, incontriamo all’interno una serie di lavori incentrati sul tema dell’ozio creativo, come quello del serbo Mladen Stilinovic che, col titolo di “Artist at Work”, aveva fatto realizzare negli anni Settanta una serie di foto di lui che dorme, a significare che la logica della creazione è antitetica a quella della produzione. Nel vasto spazio successivo della sala centrale con la cupola affrescata di Chini la statunitense Dawn Kasper ha trasferito fisicamente il suo studio americano e, ovviamente, anche se stessa e i suoi collaboratori, trasformandolo in una officina creativa dove realizza performance di arte e musica. Nelle sale successive si ripetono lavori di artisti che rivendicano l’ozio come fase indispensabile alla creazione, compreso un filmato del danese Soren Engsted in cui l’artista, levitando nell’aria, rivendica questa pratica come possibilità di relazionare corpo e spirito (ovviamente con una buona dose di ironia). Altri artisti si confrontano col Libro, non solo come contenitore di idee e suggestioni ma anche come supporto fisico con cui  operare. Ovviamente non è possibile citare tutti gli artisti e le opere e mi soffermerò solo su alcuni. Lungo il percorso si incontra un piccolo giardino, opera dell’architetto veneziano Carlo Scarpa: un vero minuscolo luogo di bellezza. Può capitare al visitatore di incontrare una signora vestita con un abito tradizionale cinese, Lee Mingwei, che lo invita a sedersi su una seggiola in questo giardino e lasciarsi prendere dalla semplice armonia della natura e dell’opera poetica dell’uomo. In cambio lei darà una busta sigillata, invitando ad aprirla solo la volta successiva in cui ci si incontrerà con la bellezza. Ovviamente non ne dico il contenuto. A un certo punto del percorso si raggiunge una vasta sala che ha una parete tappezzata di disegni che, a una miglior visione, possono apparire scarabocchi, macchie di colore. Si tratta del lavoro di un artista che si sta imponendo internazionalmente, l’albanese Edi Rama, che ha una caratteristica piuttosto unica: è un importante uomo politico, è attualmente Primo Ministro, segretario del partito socialista albanese, ed è stato sindaco della città di Tirana (a lui si deve un intervento urbanistico di colorazione di numerosi edifici che li ha trasformati in attrattiva turistica). Rama partecipava alle varie riunioni politiche e intanto disegnava (scarabocchiava) su tutti i supporti di carta che gli capitavano (bloc notes, moduli, ecc.) rifacendosi alla scrittura automatica surrealista. Ora ai suoi disegni e anche al processo della loro realizzazione in circostanze così particolari è stata riconosciuta valenza artistica e Rama fa mostre in molte importanti rassegne e gallerie d’arte. Nella stessa vasta sala vediamo diversi ragazzi e ragazze, per lo più di colore, seduti a lavorare alla produzione di moduli per lampade a luce verde, che vengono poi variamente assemblati. Si tratta del progetto del danese Olafur Eliasson, artista famosissimo, che, invitato alla Biennale, ha deciso di non portare una propria opera ma un progetto in cui coinvolgere giovani rifugiati, studenti e anche visitatori in un lavoro collettivo di realizzazione di lampade a luce verde, secondo moduli da lui ideati. Questa attività proseguirà per tutta la durata della Biennale, consentendo così ai giovani rifugiati di socializzare, entrare in contatto con tante persone, ricevere anche una istruzione di base e della lingua. Le lampade, realizzate con materiali di riciclo, che nello spazio espositivo vengono assemblate in composizioni molto grandi e in continua trasformazione, sono vendute e il ricavato destinato ad Emergency e altre organizzazioni per interventi di assistenza umanitaria. Il gallese Cerith Wyn Evans propone un lavoro filmico dedicato a Pasolini, che documenta un intervento eseguito sulla spiaggia di Ostia dove il poeta fu ucciso. Della seconda sezione, Padiglione delle Gioie e delle Paure, vorrei ricordare la splendida sala della statunitense Kiki Smith. La Smith realizza bellissimi e delicati disegni su carta nepalese e, usando anche altri supporti, propone un universo di immagini di donne lontane dagli stereotipi erotizzati comuni, di individui che cercano un rapporto armonioso con la natura, di raffigurazioni archetipe. Lavori delicati, raffinati, molto belli. Infine, terminando il lungo giro, la video installazione dell’argentino Sebastian Diaz Morales: un uomo galleggia sospeso in uno spazio colorato cambiando lentamente la propria posizione così come mutano i colori. Suggestiva.
Il Padiglione Centrale si raggiunge passando i tornelli di entrata e percorrendo un breve rettilineo. Sulla sinistra ci sono i primi padiglioni nazionali, a partire dalla Spagna. Sulla destra c’è un edificio basso e piuttosto lungo: si tratta della libreria della Biennale, completata nel 1991 su progetto dell’architetto inglese James Stirling. Nel corso di questa mostra ospita una raccolta di libri suggeriti da artisti presenti e alcuni lavori tra cui segnalo le opere su carta della tedesca Irma Blank, artista ultraottantenne residente in Italia che sta acquistando sempre maggior fama e che affronta il tema della scrittura, del segno grafico che nasconde il significato delle parole e diventa decorazione, esercizio sul tempo e la bellezza.
Segnalo inoltre, per chi non ci fosse mai stato, che i Giardini della Biennale sono pieni di panchine dove si può riposare e anche pranzare (portandosi i panini, che è la cosa più economica), così come ci sono chioschi per un pasto veloce o bere qualcosa in contesti verdi molto piacevoli (ci sono anche sdraio per prendere il sole). C’è anche, vicino al Padiglione Centrale, un bar optical molto bello e straniante progettato alcune edizioni fa dall’artista tedesco Tobias Rehberger.

Sauro Sassi



BIENNALE ARTE VENEZIA AI GIARDINI DI CASTELLO
PER ARRIVARE: DALLA STAZIONE CENTRALE VENEZIA SANTA LUCIA: TRAGHETTI 4.1 DIREZIONE GIUDECCA O 5.1 DIREZIONE LIDO (PIU’ VELOCE).
ORARI: 10-18, CHIUSO IL LUNEDI’. FINO AL 26 NOVEMBRE 2017
BIGLIETTI: INTERO PER LE DUE MOSTRE (GIARDINI E ARSENALE, CHE SI POSSONO VISITARE UNA SOLA VOLTA ANCHE IN GIORNI DIVERSI) 25 EURO. RIDUZIONE A 20 EURO PER OVER 65, POSSESSORI DI ABBONAMENTO ALLA BIENNALE CINEMA. 22 EURO PER SOCI COOP, CTS, FAI, TOURING, BIGLIETTO FRECCIA PER VENEZIA DI NON OLTRE TRE GIORNI PRIMA. RIDOTTO STUDENTI E/O UNDER 26 15 EURO. BIGLIETTO PER 48 ORE CON ENTRATE PLURIME 30 EURO, RIDOTTO 22 PER STUDENTI E/O UNDER 26.

L’ARSENALE E’ VICINO AI GIARDINI E DA QUESTI SI RAGGIUNGE A PIEDI

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