L'ARTE A NATALE A MILANO


SUGGERIMENTI PER UN GIRO D’ARTE NATALIZIO A MILANO
   


Milano vale sempre una visita per un amante dell’arte. Attualmente Palazzo Reale, in piazza Duomo, ospita l’importante mostra su Caravaggio, che attira moltissimi visitatori. Si può poi ampliare l’esame del grande pittore lombardo passando alle Gallerie d’Italia, in piazza della Scala, dove, intorno alla sua opera “Il martirio di Sant’Orsola”, proveniente da Napoli, è allestita la mostra “L’ultimo Caravaggio: eredi e nuovi maestri”, che documenta l’influenza che ebbe la sua arte dal nord al sud del nostro paese. Sempre a Palazzo Reale, una vasta monografica di Toulouse Lautrec e una nuova mostra dedicata al fotografo americano James Nachtwey, considerato tra i più importanti fotografi di guerra viventi ed erede di Robert Capa. Non manca poi l’annuale ospitalità da parte del Comune, a Palazzo Marino, di un’opera d’arte visitabile gratuitamente (con un po’ di fila) in un bell’allestimento. Quest’anno è la volta della “Sacra Conversazione” di Tiziano, proveniente dalla Pinacoteca di Ancona. Io vorrei però segnalare alcune altre mostre, che possono anche permettere di scoprire luoghi meno conosciuti, e comunque di sicuro interesse per chi segua l’arte contemporanea.
In pieno centro, a due passi dal quadrilatero della moda, un nuovo spazio chiamato Building, in via Monte di Pietà 23, sviluppato su un pianterreno e tre piani espositivi, propone una mostra dell’artista toscano, ora residente a Milano, Remo Salvadori. La mostra si intitola “Continuo infinito presente”. Salvadori opera con metalli, vetro ed elementi naturali come acqua e legno per realizzare sculture di grande raffinatezza in cui suggerisce come uomo e ambiente siano immersi in un unico flusso naturale e spirituale in cui tutto si trasforma e tende all’armonia. Salvadori rende i metalli e gli elementi duttili, elimina le asperità, suggerisce trasformazioni alchemiche, facendo interagire le opere con l’ambiente. La mostra, a entrata libera, dura fino al 27 gennaio 2018 ed è aperta dal martedì al sabato dalle 10 alle 19.  www.building-gallery.com
Segnalo che è possibile approfondire la conoscenza di Salvadori visitando il grande spazio a Pero, subito fuori Milano, della storica galleria Christian Stein, che propone, a sua volta, una mostra dell’artista. Per informazioni è bene recarsi nella sede di Milano della Galleria Stein, in Corso Monforte 23, vicino a piazza San Babila, che ospita attualmente un altro artista toscano affine a Salvadori, Marco Bagnoli. La galleria è aperta dal martedì al venerdì dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 19, sabato dalle 12 alle 19. L’entrata è libera www.galleriachristianstein.com
Trovandosi in piazza San Babila si deve visitare, nelle immediate vicinanze, la Fondazione Carriero, in via Cino del Duca 4. Ancora una volta un privato ha pensato di usare risorse proprie per portare agli altri la sua grande passione per l’arte. La fondazione si trova in un bel palazzo del ‘400 e ci permette di considerare, in un bellissimo allestimento di Francesco Stocchi e del famoso architetto Rem Koolhaas, il lavoro di uno dei principali protagonisti della storia dell’arte del secondo ‘900, lo statunitense Sol LeWitt (1928 – 2007). LeWitt si affacciò al mondo dell’arte nella seconda metà degli anni ’60, quando ancora erano forti gli echi dell’espressionismo astratto (Pollock, De Kooning…) e cominciava ad affermarsi la Pop Art. Entrambi questi movimenti erano valutati criticamente da artisti che intendevano riportare l’arte all’essenzialità, eliminando il coinvolgimento emotivo dei primi e l’inflazione di immagini dal mondo dei consumi dei secondi. Nacque così il “Minimalismo”, con artisti come Donald Judd e Carl Andrè, che utilizzavano nei loro lavori manufatti industriali, che venivano assemblati in modo assolutamente anonimo, confrontandosi solo con lo spazio che li ospitava. LeWitt, anche teorico, utilizzò invece il termine “Arte Concettuale” per descrivere un preciso atteggiamento dell’artista, che progettava l’opera affidandone poi la realizzazione ai suoi assistenti. Anche per lui occorreva utilizzare elementi primari, geometrici, che dovevano porre una distanza tra l’artista e lo spettatore dell’opera. Sicuramente guardava alla lezione di persone come il tedesco Josef Albers, rifugiato negli Usa per fuggire il nazismo e già esponente del Bauhaus, propugnatore di un’arte astratta fondata sulla geometria e la psicologia della percezione. LeWitt utilizzava le forme geometriche più elementari, il quadrato e la sua proiezione tridimensionale, il cubo, realizzando sculture che si posizionavano nello spazio in posizioni eccentriche, a volte invadendo anche più sale. Così, in questa mostra, troviamo opere, che egli chiamava “Structures”, situate in un angolo o magari pendenti dall’alto o che si richiamano da un piano all’altro. LeWitt si pose anche il problema di realizzare opere bidimensionali in modo assoluto, cioè eliminando anche la cornice e la tela e operando direttamente sulle pareti, da considerare come un libro che lui scriveva (faceva scrivere) con le sue grafie elementari di linee orizzontali, verticali, diagonali da destra a sinistra e da sinistra a destra. Questo procedimento, che chiamò “Wall drawing”, non è chiaramente nuovo, basti pensare agli affreschi o ai murales messicani; lui però ne eliminò l’elemento narrativo, facendone, soprattutto all’inizio, un luogo di astrazione mentale. Col tempo LeWitt perse in parte il suo rigore geometrico e, stabilitosi in Italia, a Spoleto, scoprì il colore di Giotto e colorò i suoi muri, inserendo anche forme sinuose. Comunque, la mostra alla Fondazione Carriero ci mostra i lavori più rigorosi dell’artista americano, che iniziano con un wall drawing del 1975 (le composizioni murali sono riprodotte sotto il controllo della Sol LeWitt Estate) e proseguono con un’opera molto singolare, intitolata “Autobiography”, che era nata come libro d’artista, con una serie di fotografie che mostravano non lui ma l’ambiente in cui viveva, gli oggetti quotidiani, le opere. Ora una parte di queste foto vengono riportate a parete e ci propongono un ritratto dell’artista senza la sua immagine. La mostra si sviluppa in diverse sale al pianterreno e al primo piano e giunge al secondo, dove il palazzo ingloba la stanza affrescata di un edificio adiacente che, grazie a uno specchio che occupa tutta una parete e raddoppia virtualmente lo spazio, gioca ancora con le linee e i volumi di LeWitt. Fino al 23 giugno 2018. Aperta dal lunedi al sabato dalle 11 alle 18. Entrata libera. www.fondazionecarriero.org
Trovandosi in questa zona (San Babila) all’ora di pranzo segnalo un buon self service per un pasto veloce: “Brek”, Piazzetta Umberto Giordano 1
Avendo visto il lavoro di un fondamentale esponente dell’Arte Concettuale come LeWitt, Milano offre la possibilità di confrontarlo con un altro artista americano della stessa generazione, che condusse, a sua volta, una ricerca volta a ridurre l’arte all’essenziale, usando però uno strumento diverso: la luce. L’artista di chiamava Dan Flavin (1933 – 1996), aveva avuto un’educazione cattolica, approfondì lo studio del filosofo medievale Guglielmo di Occam, che, con il termine di Nominalismo, aveva teorizzato l’impossibilità della ragione umana di comprendere il divino. Così la ragione non è tenuta a cercare di spiegare l’esistenza di Dio e quindi, per Flavin, l’atto dell’arte non contiene nulla di spirituale. L’opera è data, è frutto della ragione umana, della cultura. Egli negò quindi alla luce, che era il suo strumento di produzione, tutti i significati che la tradizione religiosa le attribuiva, considerandola solo materia concreta, come il colore spremuto da un tubetto. Usava solo tubi al neon di produzione industriale, di quattro misure standard e di nove possibili colori. Con questi strumenti interveniva sugli spazi architettonici modificandone la percezione. Per avere un’idea delle vette di splendore da lui raggiunte occorre visitare le stanze della villa Panza di Biumo Superiore, fuori Varese, accessibile perché gestita dal Fai,  che ospita sempre splendide mostre, oltre a parte della collezione del defunto proprietario, Giuseppe Panza, il maggior raccoglitore di arte contemporanea americana degli anni ’60 e ’70. Si attraversa un corridoio con un’infilata di stanze ognuna illuminata da luci diverse e se ne ha una fortissima emozione: la bellezza che si rivela attraverso la luce. Flavin ha eseguito un bellissimo intervento anche in una chiesa periferica milanese, Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa, risalente agli anni ’30. Usando luci dei colori verde, blu, rosa, dorata e ultravioletta, è intervenuto sugli spazi della chiesa modificandoli, rivelandone le forme architettoniche, modificandone profondamente la percezione. Pura bellezza, ottenuta con mezzi semplicissimi. La chiesa, in via Neera 24, si raggiunge da Piazza Duomo, fermata bus M1/M3 di via Torino, con l’autobus 3 in direzione Gratosoglio, scendendo alla fermata di via Montegani/ via Neera. E’ aperta il pomeriggio dalle 16 alle 19.
Un altro artista statunitense che ha invece voluto inserire nel suo lavoro una componente fortemente spirituale è Bill Viola, che utilizza video ad alta definizione per realizzare opere che, spesso, rimandano alla tradizione pittorica e che richiamano grandi temi come il destino dell’uomo, le sue emozioni profonde, il passaggio dalla vita alla morte. Attualmente tre suoi lavori sono ospitati nello spazio suggestivo della Cripta di San Sepolcro, situata in uno dei luoghi più antichi della città, dove sembra ancora di avvertire la presenza spirituale di San Carlo Borromeo. I tre lavori di Viola si adattano benissimo in un luogo così pieno di memoria e rendono la visita una esperienza emozionante. Il primo si intitola ”Earth Martyr”, e fa parte di un ciclo di quattro opere dedicata agli elementi naturali, installate presso la chiesa di Saint Paul a Londra. Questa riguarda la terra e mostra un uomo (un martire) che attraversa drammaticamente la terra e torna alla vita. La seconda opera si intitola “The Return” ed appartiene alle “Trasfigurazioni”. Qui una donna si avvicina in lontananza, con una immagine sgranata; attraversa una soglia di acqua, che rappresenta il passaggio tra la morte e la vita, la sua immagine acquista nitidezza; ci guarda con sguardo che sembra chiedere ma senza poter esprimere parole, poi si volta e lentamente torna ad attraversare la soglia e scompare. L’ultima opera, “The Quintet of the Silent” mostra cinque personaggi apparentemente immobili, come congelati. Nel tempo, però, essi mutano, i loro volti esprimono emozioni (dolore, stupore, interrogazione). Non ne conosciamo la causa, forse riassumono le emozioni dei tanti che in questa cripta hanno pregato, sperato, sofferto. La Cripta si trova in Piazza di San Sepolcro e si raggiunge facilmente a piedi da Piazza Duomo. L’ingresso comporta un biglietto di 10 euro, 11 per visitare anche il vicino Foro Romano (il ricavato verrà destinato a proseguire i lavori di restauro della Cripta). Si entra a intervalli di un’ora dalle 17 alle 22, venerdì e sabato fino alle 23, fino al 28 gennaio 2018, ed è consigliata la prenotazione sul sito www.criptasansepolcromilano.it
Suggerisco anche una visita alla bella mostra di Enrico Baj, intitolata “L’arte è libertà” alla Fondazione Marconi di Milano. Giorgio Marconi è stato uno dei più importanti galleristi d’arte moderna in città (oggi la galleria è gestita dal figlio Giò), e ha dato spazio anche ad artisti locali che hanno raggiunto grande fama. Baj (1924 – 2003) è stato un grande animatore dell’ambiente artistico milanese a partire dagli anni ’50, entrando in contatto con Lucio Fontana, Piero Manzoni, ma anche con artisti e intellettuali internazionali. Grande ammiratore di Alfred Jarry (l’autore di Padre Ubu) e della sua Patafisica (la “scienza delle soluzioni immaginarie”), la sua idea di arte era polemicamente all’opposto rispetto a quella razionale, geometrica propugnata dagli eredi del Bauhaus. La sua arte era impregnata di elementi politici e sociali, di slanci polemici, di voluto cattivo gusto al fine di provocare i borghesi, i benpensanti, le istituzioni, a partire da quella militare. Realizzava quindi lavori col meccano, collages con pezzi di stoffa, bottoni e passamanerie varie. Una delle sue serie più famose furono i Generali e le Parate Militari, dove trasformava questi personaggi in manichini assurdi. La mostra alla Fondazione Marconi si incentra soprattutto sui lavori di impegno civile e politico, e culmina con la grande opera “I funerali dell’anarchico Pinelli” dove, ispirandosi a Guernica di Picasso, mostra la caduta di Pinelli dalla finestra della questura di Milano con, da un lato, il dolore, degli anarchici e, dall’altro, la ferocia di poliziotti e politici. L’opera doveva essere ospitata a Palazzo Reale a Milano ma, il giorno dell’allestimento, fu ucciso il commissario Calabresi ed essa rimase non vista per cinquant’anni. La Fondazione si trova in via Tadino 15, si raggiunge da piazza Duomo con il metro 1 verso Bisceglie o Rho e scendendo a Porta Venezia e facendo poche centinaia di metri a piedi. Orari: martedì sabato 10 – 13 e 14 – 19. Entrata libera. Fino al 27 gennaio 2018.   www.fondazionemarconi.org
Ultimo suggerimento riguarda uno spazio particolare, aperto dallo stilista Antonio Marras. Si tratta, come si dice, di un concept store, dove agli abiti si uniscono elementi di arredo con oggetti di riuso, in un insieme assai intrigante. Marras, che ama l’arte, ed era amico della grande artista sarda Maria Lai, che realizzava i suoi lavori con l’ago e il filo, fa allestire sempre, in questo suo spazio, che si chiama NonostanteMarras, mostre di ottimo livello. Attualmente, con la cura di Francesca Alfano Miglietti, è installata una bella mostra delle foto di Mario Giacomelli, uno dei più importanti fotografi italiani. L’esposizione si intitola “Per tutti la morte ha uno sguardo”, riprendendo un verso di Cesare Pavese. Giacomelli, marchigiano, realizzò nell’ospizio di Senigallia un ciclo di dolorosi e intensi ritratti di anziani, i volti segnati da rughe e il presagio della fine imminente. Le stesse rughe egli colse nella terra, nei paesaggi, spesso ripresi dall’alto, in un bianco e nero fortemente contrastato. In mostra, allestiti in modo molto singolare, troviamo oltre cinquanta scatti, dal primo del 1953 alle serie dagli anni ’70 al 2000, anno della sua morte. Lo spazio si trova in via Cola di Rienzo 8. Per arrivarci da Piazza Duomo recarsi alla fermata bus M1M3 in via Torino e prendere l’autobus 14 in direzione Lorenteggio, scendendo all’ottava, Piazza del Rosario e percorrendo circa trecento metri a piedi. Aperto dalle 10 alle 19.  www.antoniomarras.com/milano

SAURO SASSI

  



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