SAURO SASSI GIOCA IN CASA CON UNA AFFASCINANTE MOSTRA : LA FORZA DELLA MATERIA
LEONCILLO ALLA GALLERIA D’ARTE MAGGIORE DI BOLOGNA: LA FORZA DELLA
MATERIA
La Galleria d’arte Maggiore di Bologna continua a proporre mostre di
grande livello di maestri dell’arte del Novecento. Dopo Zoran Music, che ci ha permesso di trascorrere dai sognanti
paesaggi dalmati alla terribile raffigurazione delle vittime del campo di
concentramento di Dachau, tocca a Leoncillo
Leonardi, personaggio centrale dell’arte italiana del secondo dopoguerra. Leoncillo nacque a Spoleto nel 1915 (nello
stesso anno, a Città di Castello,
sempre nella provincia perugina, nacque un altro grande artista, Alberto Burri). A metà anni ’30 si recò
a Roma per studiare all’Accademia di
Belle Arti ed entrò in contatto con gli artisti della cosiddetta “Scuola romana”, che conducevano una ricerca artistica piuttosto autonoma
nei confronti del clima dominante di “ritorno all’ordine” dell’arte più
allineata al fascismo. Tra questi Mario
Mafai e la moglie Antonietta Raphael
(di origine lituana), Corrado Cagli
ma soprattutto Scipione (Gino
Bonichi), artista e poeta marchigiano morto nel 1933, a soli 29 anni, che gli lasciò un segno profondo con la sua
pittura espressionista, fortemente drammatica, influenzata da El Greco, Goya ma anche da Soutine,
il pittore russo amico di Modigliani,
di cui pure Leoncillo si ricordò
fortemente nella sua produzione del dopoguerra. In questo periodo conobbe anche
Guttuso e cominciò a maturare un
forte antifascismo. La svolta fondamentale avvenne nel 1939, quando tornò in Umbria, a Umbertide, ad approfondire la
pratica della lavorazione di quella che sarà la materia prima della sua arte:
la ceramica. Iniziò le mostre, anche in luoghi di prestigio come la Triennale di Milano, ma sentì il dovere
morale di partecipare alla lotta di liberazione partigiana, entrando nella
Brigata Garibaldi di Foligno e nel Partito Comunista Italiano. Nel 1944
realizzò un’opera che ebbe molta fama e rispecchiava il suo impegno: “Madre romana uccisa dai tedeschi”
(penso che Rossellini possa averla
avuta presente nel pensare “Roma città
aperta”). Col dopoguerra gli artisti cercarono di scrollarsi di dosso il
conformismo, l’autocensura che li avevano condizionati nel periodo fascista
(anche se il fascismo italiano fu meno opprimente verso l’arte del nazismo) e
cercarono di riagganciarsi alle più importanti tendenze internazionali,
coniugando impegno politico e civile (erano quasi tutti di sinistra) a nuove
ricerche di linguaggio. Il movimento che li riunì si chiamò “Fronte nuovo delle arti” e il modello a
cui tutti si riferirono fu uno: Pablo
Picasso. Picasso divenne il
modello e il cubismo il linguaggio attraverso cui rigenerare l’arte nazionale.
Anche Leoncillo ebbe la sua fase
cubista. Gli artisti iniziarono però presto a litigare perché il PCI e Togliatti volevano un’arte realista,
che rappresentasse il conflitto sociale, la condizione del popolo in modo
chiaro e riconoscibile. La maggior parte degli artisti, pur essendo comunisti,
pensava invece che l’arte dovesse essere autonoma, sviluppare nuovi linguaggi e
che proprio con la ricerca si potessero porre le basi per una nuova società. Si
riproponeva, ovviamente in modo meno drammatico, la vicenda degli artisti russi
che avevano sostenuto con entusiasmo la rivoluzione e che poi erano stati annientati,
uccisi, costretti alla fuga o al suicidio perché considerati lontani dal
popolo, in nome della riproposizione di uno sterile accademismo e di un
realismo adulatorio del capo. Leoncillo
era ancora iscritto al PCI e cercava di realizzare lavori in cui coniugare
impegno civile e modi compositivi post cubisti. Accanto alle mostre e alle
partecipazioni alla Biennale di Venezia
fece anche opere pubbliche, tra cui, nel
1955, il “Monumento alla partigiana
veneta”, che fu messo nei giardini di Castello, vicino alla sede della Biennale, e fu fatto saltare dai
fascisti nel 1961 (e mai più
sostituito, anche se la Galleria d’arte moderna di Ca’ Pesaro ne conserva una copia, la prima, che non era stata
accettata perché la partigiana indossava una sciarpa rossa). Poi nel 1956, coi fatti d’Ungheria, Leoncillo entrò in una crisi umana e
politica profonda, che lo portò a uscire dal PCI e a cambiare anche il suo
stile, avvicinandosi all’Informale. Informale è un termine generico,
derivato dal francese “Informel”,
con cui si indicava un’arte che superava i limiti della pura rappresentazione
per consentire un confronto immediato con la materia e il segno. Questo tipo di
arte richiama a un momento di grande crisi del dopoguerra, col subentrare della
guerra fredda, la consapevolezza dell’arma nucleare, la conoscenza dei campi di
sterminio. Ciò portava gli artisti a una crisi esistenziale, che si rifletteva
anche in campo filosofico. Si metteva in discussione la capacità dell’arte di
comunicare o si pensava che la comunicazione non potesse andare oltre al grido
del singolo. L’artista era portato ad esprimere la propria lacerazione
interiore e non si poneva il problema della comprensione dello spettatore.
Naturalmente esistevano anche idee diverse, come chi si richiamava alla natura,
elaborando magari, come teorizzato da Francesco
Arcangeli, un percorso che da Caravaggio,
attraverso Turner, Monet, Cezanne, giungesse ad un “Ultimo
naturalismo”. Oppure che si potesse,
come Capogrossi e Carla Accardi, elaborare un alfabeto di
segni che, eliminando la figurazione, cercasse però di definire nuovi linguaggi
visivi. Leoncillo portò nelle
terrecotte il suo disagio esistenziale. Era diventato un mago nella
lavorazione, le opere crescevano nelle sue mani, il colore brillante
contribuiva ad accrescerne la drammaticità (e il colore, come diceva Argan,
diventa fondamentale nella scultura). In mostra troviamo sculture, bozzetti,
lavori su carta del periodo informale. Ritorna l’influenza di Soutine, con un taglio rosso che
ricorda i suoi buoi squartati. C’è un dialogo con il corregionale Burri, fondato sulla materia
(ricordiamo i cretti di Burri) e i
colori drammatici, rosso e nero. C’è anche un dialogo con Lucio Fontana, che portava avanti, parallelamente, una ricerca
innovativa con i tagli e gli ambienti spaziali, e un confronto con la materia,
con la serie delle “nature”, sfere
irregolari di terracotta nera bucate e tagliate; e una produzione in ceramica
colorata ridondante e barocca, così come Roberto
Longhi aveva definita barocca l’arte di Leoncillo. La dimensione dolorosa,
tormentata della opere di Leoncillo in mostra si desume anche dai titoli: “Grande mutilazione”, “Mutilazione”, “San Sebastiano”. C’è poi un lavoro molto particolare, attorno a cui
ruota l’intera mostra: “Amanti antichi”.
Si tratta di un’opera che chi ha visto questa estate la splendida esposizione
collettiva intitolata “Intuition” al
palazzo Fortuny di Venezia ha già
avuto occasione di ammirare. Si rifà esplicitamente al “Sarcofago degli sposi” di Cerveteri
ma, dove nell’opera etrusca si rappresentano due coniugi che sembrano voler
sfidare il tempo e la morte con un atteggiamento di quieta serenità, qui si
offre la sensazione che il tempo tutto corrode, che gli esseri perdano la
propria forma, che la materia di cui è fatto il mondo si sgretoli e di tutti
non resteranno che frammenti e poi polvere. Questa mostra è da vedere perché
rappresenta un pezzo della storia dell’arte moderna italiana e perché ci fa
ricordare un grande artista del recente passato. Leoncillo morì per infarto nel 1968.
Magari avrebbe riacceso i suoi ideali e cambiato ancora la sua arte.
SAURO SASSI
LEONCILLO
GALLERIA D’ARTE MAGGIORE VIA D’AZEGLIO
15 BOLOGNA
APERTO LUNEDI’ 16-19.30
DA MARTEDI’ A SABATO 10-12.30 E 16-19.30
SABATO 3 FEBBRAIO, ART NIGHT, FINO ALLE
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