TRE MOSTRE D’ARTE A BOLOGNA
Suggerisco la visita di tre mostre
che mi sembrano interessanti nella città di Bologna. In tutte si pone il tema
del rapporto tra reale e sua rappresentazione, sia che si tratti di paesaggio urbano,
di paesaggio umano in rapporto alle nuove tecnologie o di una meditazione sul
sacro, l’immagine e la rivelazione. In due lo strumento principale dell’artista
è la fotografia, nel terzo una pittura che recupera l’antica tecnica
dell’encausto.
Alla Pinacoteca Nazionale il fotografo Carlo Valsecchi si occupa del Gasometro,
costruzione che fa parte dal panorama cittadino dal 1930, visibile dai viali tra Porta
Mascarella e Porta San Donato e dalla linea ferroviaria che va dalla Stazione Centrale
verso sud. Si può dire che la sua mole abbia disegnato lo skyline cittadino del
Novecento, assieme alle Torri di Kenzo
Tange alla fiera, a quelle di Zacchiroli,
sempre in zona fiera, e al Grattacielo
di San Vitale. Nel Gasometro era
stoccato il gas derivato dalla distillazione del carbone. A partire dagli anni
’60 il gas da carbone venne sostituito dal metano e il gasometro non risultava
più tecnicamente adatto allo stoccaggio, quindi furono creati nuovi impianti e
la torre venne via via dismessa, rimanendo solo come segno della vecchia fase
industriale. L’area intorno al Gasometro, dove tuttora sorge la sede centrale
dell’azienda Hera, multiutility che
si occupa anche di distribuzione del gas, oltre che di acqua, ambiente, energia,
è stata sottoposta a bonifica e anche la grande costruzione è stata restaurata.
Hera ha quindi chiesto a un
fotografo che si occupa spesso di documentare spazi industrialI, Carlo Valsecchi (Brescia, 1965), di
rappresentarne, dal proprio punto di vista, l’immagine. Valsecchi, che alla Biennale
Foto Industria del 2017, organizzata dal Mast di Bologna, aveva presentato un suggestivo lavoro sulla nuova
fabbrica Philip Morris di Crespellano, ha affrontato il Gasometro con lo stesso stile, che è
quello della smaterializzazione dell’oggetto rappresentato, conferendo
leggerezza anche alla mole imponente di questo manufatto. Il suo Gasometro, rappresentato in fotografie
di grandi dimensioni, sembra perdere di peso e di monumentalità, diventa una
specie di capsula spaziale, un oggetto contemporaneo, anche futuribile. Valsecchi ne documenta le fasi del
restauro, fotografando le impalcature esterne che lo avvolgono come una
crisalide. Poi va dentro e ci mostra una farfalla leggera, inondata dalla luce.
Il Gasometro, così, non appare più
il simbolo pesante di un passato industriale ma quello di un futuro post
industriale, cibernetico, digitale.
CARLO VALSECCHI – GASOMETRO M.A.N. N.3 – PINACOTECA NAZIONALE DI BOLOGNA FINO
AL31/3 – DA MARTEDI’ A DOMENICA 10/19 – INGRESSO
LIBERO
La Raccolta Lercaro è una delle più belle collezioni d’arte di Bologna, e meriterebbe una maggiore
considerazione da parte di turisti e locali. Si fonda sui lavori conferiti al Cardinale Lercaro da artisti come Manzù, Martini, Morandi, Guttuso e tanti altri, una bellissima
raccolta di cartoline di Giacomo Balla, opere di contemporanei
come Spalletti e Paladino, e lavori antichi (arazzi fiamminghi, una Madonna del Latte in gesso del
Millecinquecento, una recentemente acquisita “Incoronazione della Vergine”
di Simone dei Crocifissi). Inoltre,
grazie al lavoro del direttore artistico padre
Andrea Dall’Asta, vengono ospitate mostre temporanee. Al momento ne sono in
corso due, una intitolata “Da Picasso a Fontana”, con opere dalla
collezione di Sandro Cherchi, che è
stato un importante scultore del Novecento, e l’altra intitolata “Rest”, dell’artista svedese Mats Bergquist (Stoccolma, 1960), che è
vissuto molti anni in Italia, e ha elaborato un linguaggio che si può inserire
in definizioni come minimalismo o astrazione ma con una complessità che,
in realtà, queste definizioni mette in discussione. L’artista svedese opera
soprattutto con tavole di legno, su cui stende strati di colore impiegando
molto tempo e che vengono fissati attraverso l’antichissima tecnica dell’encausto. La superficie, alla fine,
risulta concava o convessa, il colore appare uniforme e assume i toni del bianco, che richiama la luce, anche con
accezione religiosa, un viola molto
scuro che suggerisce idee di morte e un azzurro che sa di ultra naturale,
divino. Perché Bergquist si
confronta con la spiritualità e la religione. Fa riferimento, in particolare,
alla tradizione ortodossa, chiamando queste sue opere “Icone” o “Iconostasi”. L’apparenza
dei lavori sembra tradirne la nominazione: icone senza immagini. Ma l’opera
sembra attendere l’emanazione dell’immagine, come se dovesse emergere da un
momento all’altro, dalla luce o dal buio. Oppure sembra che ciò che vediamo sia
ciò che resta dopo che l’immagine è stata consumata dai baci dei fedeli, come descritto
da una poesia del suo connazionale Gunnar
Ekelof: “Tutto quello che abbiamo
desiderato/consumato da baci/Tutto quello che non abbiamo desiderato/baciato e
consumato da baci/Tutto ciò da cui siamo sfuggiti/consumato da baci/Tutto
quello che desideriamo/una volta di più consumato da baci…”. I suoi lavori
si confrontano sicuramente con la tradizione dell’arte russa, a partire da Andrej Rublev, ma filtrata dallo spiritualismo
e dalla semplificazione radicale di un Malevic,
che pure, come Bergquist, realizzò
quadri monocromi, anche col segno della croce. L’arte dello svedese risulta
quindi di una straordinaria pregnanza e complessità, frutto, come dice in
catalogo Bruno Corà, di meditazioni
sul vuoto, sulla luce, sulla pausa (il tempo, la rivelazione, l’attesa). Tutto
al contrario di ciò che affermava l’artista americano Frank Stella a proposito delle sue superfici astratte, “What you see is what you see”, nel caso
di Bergquist ciò che si vede è ciò
che viene prima o dopo la visione, è l’opera nel suo divenire, con una forte
accezione religiosa. L’opera che dà il titolo alla mostra, “Rest”, nel significato inglese di “riposo”, “pausa”, è un
frammento di legno recuperato da una nave rimasta sott’acqua, nel mar Baltico,
per oltre trecento anni. Questo legno viene da Bergquist associato all’idea della soglia che l’ebreo errante negò
a Gesù di oltrepassare, pensando a quanti oggi impediscono il passaggio a tanti
poveri Cristi. A ciò si contrappone il calco della mano dell’artista, col palmo
aperto in segno di accoglienza. Infine segnalo una serie di lavori in ceramica,
realizzate con la tecnica “raku”,
che rappresentano forme ovoidali che richiamano le bambole votive giapponesi.
Ancora una interrogazione sulla forma, la luce, il sacro.
MATS BERGQUIST – REST – RACCOLTA LERCARO – VIA RIVA DI RENO 57 – FINO AL
22/4 – GI E VE 10/13 SA E DO 11/18,30 – INGRESSO LIBERO
La benemerita Fondazione Mast porta a Bologna uno dei più importanti (e più
costosi) fotografi mondiali, il tedesco Thomas
Struth. Struth, classe 1954, si
formò alla Kunstakademie di Dusseldorf,
avendo come mastri l’artista Gerhard
Richter e poi, alla classe di fotografia, i coniugi Bernd e Hilla Becher. Dal loro insegnamento si formarono, oltre a Struth, molti dei più importanti
fotografi dell’attuale scena mondiale: Thomas
Ruff, Andreas Gurski, Candida Hofer, Elger Hesser e molti altri. I Becher,
che vinsero anche il Leone d’oro
alla Biennale di Venezia,
fotografavano edifici di archeologia industriale, seguendo strettamente alcune
regole: bianco e nero, inquadratura frontale, cielo grigio e senza nuvole,
stessa ora della giornata per ottenere sempre uguale luminosità: una fotografia
di grande rigore formale, di totale oggettività. In qualche modo tutti i loro
allievi hanno assimilato questa lezione di uno sguardo freddo, analitico, non
emozionale, introducendo però delle varianti, come l’uso del colore, le
dimensioni sempre maggiori delle opere. La mostra di Struth al Mast si
intitola “Nature & Politics” e
si compone di fotografie di grande formato eseguite in luoghi a forte
concentrazione tecnologica, come centri di ricerca spaziale, impianti nucleari,
piattaforme petrolifere, sale operatorie. Esclusa quasi completamente la
presenza umana, questi luoghi emanano un che di enigmatico: la gran quantità di
cavi, apparecchiature, tubi e fili colorati ci escludono dalla comprensione
della loro funzione, ci offrono un’immagine caotica di un presente in cui la complessità
della tecnologia ci sottrae la possibilità di cogliere il senso e lo sviluppo
della stessa. Come dice Struth: “Ogni tecnologia sottende un progetto e un
interesse politico”. Oggi, in un
presente dominato dalla tecnologia, la luminosa e cristallina chiarezza delle
immagini di Struth ci pone ancor più
a disagio, mette in discussione la nostra percezione del reale e ci interroga
sulla direzione verso la quale i padroni della tecnica ci stanno portando. Alle
immagini della tecnica il fotografo affianca alcune (poche) immagini della
natura. Mentre una coltivazione in laboratorio di piante di sorgo ci dà una
visione non diversa da quella del groviglio di cavi di un sito ad alta tecnologia,
un paesaggio marino, con la spuma bianca del mare punteggiato dallo scuro di
rocce irregolari, una sottile linea blu all’orizzonte, il bianco grigio del
cielo nuvoloso ci mette in uno stato che sta tra il desiderio di sprofondare
nella bellezza e l’idea che anche la natura sia qualcosa a noi estranea e
incomprensibile.
THOMAS STRUTH – NATURE & POLITICS – MAST VIA SPERANZA 42 BOLOGNA – DA
MARTEDI’ A DOMENICA 10/19
SAURO SASSI
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