DUE ARTISTI MIGRANTI: ARSHILE GORKI E JANNIS KOUNELLIS
L’occasione
per parlare di questi due artisti è data dalle belle mostre loro dedicate a Venezia, in due splendidi palazzi che
si affiancano sul canal Grande: Ca’ Pesaro e Ca’ Corner della Regina.
Provenienti ed approdanti in Paesi diversi, la loro opera si è dispiegata nella
prima metà del Novecento per Gorki e nella seconda per Kounellis.
Li accomuna il grande amore per la potenza dell’arte, la sua capacità di
evocare mondi, e l’idea che debba essere profondamente radicata nella sua
propria storia, che con questa l’artista debba continuamente confrontarsi per
attingere un linguaggio universale: lirico, evocativo, emozionale in Gorki; drammatico, rivoluzionario in Kounellis.
Gorki
si chiamava in realtà Vosdanik Adoian,
nato nel 1904 sulle rive del lago Van, in Armenia. L’infanzia, vissuta in una rigogliosa natura, in una
pianura fertile vicina ad alte montagne, in quello che poi definì un “mondo ai confini del mondo”, si interruppe
bruscamente a causa della persecuzione e
sterminio del suo popolo da parte dei Turchi, che raggiunse l’apice nel 1915, configurandosi come un vero
genocidio. Dovette fuggire con la madre amatissima e la vide morire di fame. Riuscì a raggiungere gli Stati Uniti nel
1920, assieme alla sorella minore. Iniziò gli studi d’arte, sentendo da
subito la sua vocazione e cercando, nel confronto coi grandi artefici di tutti
i tempi, quella patria che aveva perduto. Spaziò dagli stupefacenti ritratti egiziani del Fayyum, alle battaglie
prospettiche di Paolo Uccello, alla perfezione della pittura di Ingres. Trasferitosi nel 1924 a New York, frequentò assiduamente il Metropolitan Museum, studiando e copiando i maestri del passato.
Cambiò il le sue generalità in Arshile
Gorkij, in onore allo scrittore russo, e iniziò l’insegnamento. Il suo
viaggio nella storia dell’arte lo portò verso il suo secolo, prima con Cézanne e, attraverso lui con Picasso, l’artista degli artisti,
quello a cui tutti dovevano guardare. Poi proseguì, incontrando i surrealisti: De Chirico, Mirò, Kandinsky, Max Ernst, Masson, Matta, ma anche la pittura murale di Léger, l’organicismo di Arp. Tutte queste suggestioni entravano
nella sua pittura, ma se il linguaggio non era originale i contenuti erano
personali, emozionanti, esprimevano la sua anima, la sua tristezza di fondo, la
coscienza introiettata della tragedia del suo popolo rivissuta nel ricordo
della madre. Inoltre la sua arte si evolveva in continuazione, come una ricerca
non ancora conclusa. Era diventato amico di altri artisti migranti, l’olandese De Kooning, il lettone Rothko, diventando per loro un
riferimento. Nel 1942 si sposò, ebbe due figli e andò a vivere
in campagna, nelle terre della moglie, cercando di rinnovare il rapporto con
una natura che gli ricordava quella della sua Armenia. In questi anni maturò il suo linguaggio più autentico, un
tipo di surrealismo (era diventato amico di Breton, rifugiato negli Usa) dove i segni, i colori erano ormai
quelli di uno stile maturo e autonomo. Poi tutto crollò, la sorte parve
accanirsi su di lui in maniera feroce. Nel ’46
perse in un incendio la maggior parte dei suoi lavori. Dopo poco si operò di un
cancro. Rimessosi, riprese a lavorare con accanimento: “Ciò che mi urge dentro devo dirlo al più presto, o perderò i contorni di tutto il mio cammino”. Nel giugno del 1948, in un incidente d’auto,
perse l’uso del braccio con cui dipingeva. Scoprì una relazione della moglie
col pittore Sebastian Matta.
Sopraffatto da questi avvenimenti, si uccise, rimpiangendo la sua terra, come
aveva scritto una volata alla sorella: “Può
un figlio dimenticare la terra che
gli ha dato i natali?”. La sua condizione di uomo sradicato non gli impedì
di aprire la strada agli espressionisti astratti americani e di essere un punto
di congiunzione fondamentale tra questi e le avanguardie europee. Era un uomo
senza patria fisica ma l’arte era la sua patria. La mostra a Ca’ Pesaro, sede della Galleria Internazionale d’Arte Moderna di
Venezia, si articola in queste sezioni: Ritratti e figure; Nature
Morte; Disegni (era un
abilissimo disegnatore); Anni ’40;
Le ultime opere (le più
drammatiche), che culminano col quadro più bello “Il fegato è la cresta
del gallo”, titolo criptico, ma che è una esplosione di colori, segni
che non rappresentano più, come dice Argan,
l’esistenza ma la vita dell’artista trasferita sulla tela,
un bellezza che, citando un taccuino di Fitzgerald,
“aveva raggiunto il punto in cui sembrava
contenere in se stessa il segreto della propria evoluzione, come se volesse
seguitare ad accrescersi sempre”.
SAURO SASSI
ARSHILE GORKI 1904 – 1948. FINO AL 22 SETTEMBRE
CA’ PESARO ORE 10,30 – 18. CHIUSO
LUNEDI’
SANTA CROCE, 2076. RAGGIUNGIBILE A PIEDI
DALLA STAZIONE, ATTRAVERSANDO IL PONTE DEGLI SCALZI E ANDANDO VERSO RIALTO.
INDICATO.
IL COSTO PER L’ACCESSO AL MUSEO E’ ALTO:
14 EURO, RIDOTTO 11,50 RAGAZZI DA 6 A 14 ANNI, STUDENTI DA 15 A 25, SOCI COOP.
GRATUITO RESIDENTI E NATI NEL COMUNE DI VENEZIA (SENZA COMMENTO). NATURALMENTE,
OLTRE ALLA MOSTRA SI VISITA IL MUSEO DI ARTE MODERNA, CON PEZZI MOLTO
IMPORTANTI E LA FAMOSA GIUDITTA DI KLIMT E IL MUSEO DI ARTE ORIENTALE
A Ca’ Corner
della Regina, di fianco a Ca’ Pesaro,
la Fondazione Prada, che gestisce lo
spazio da anni, con mostre di alto livello, presenta la prima esposizione
importante, dopo la morte, dedicata a Jannis
Kounellis (Pireo, 1936 – Roma, 2017),
curata da Germano Celant, che è uno
dei maggiori conoscitori dell’artista italo greco. Kounellis si trasferì a Roma
nel 1956 per studiare all’Accademia di Belle Arti e da allora è rimasto in
Italia, acquisendone la cittadinanza. Nella Roma dei primi anni ’60 trovò un clima estremamente vivo, grazie alla
lezione di artisti come Burri e di
maestri come Scialoja. Si percepiva
anche una nuova atmosfera culturale e sociale, che avrebbe portato giovani come
Schifano, Festa, Fioroni, Angeli e altri a realizzare opere che
dialogavano con la Pop Art
statunitense. Le Gallerie d’arte “La
Tartaruga”, “La Salita”, “L’Attico” sostenevano attivamente i
giovani artisti. Anche il teatro era in fermento, con il fenomeno delle “cantine” in cui muovevano i primi passi
Carmelo Bene, Leo de Berardinis, Paolo Poli. La sperimentazione passava
da un’arte all’altra, con interscambi tra i vari protagonisti. La mostra
ricostruisce tutto il percorso di Kounellis,
che inizia nel 1960, quando i
giovani artisti, dopo l’azzeramento dell’Informale,
cercavano di recuperare l’immagine, di reinventare una figurazione attingendo
sia al linguaggio pubblicitario che alla nostra grande tradizione pittorica. Kounellis iniziò trasferendo su tela frammenti
di scritte, simboli grafici e, soprattutto, numerici, con vernice nera. Sia
l’uso del frammento sia il colore nero saranno ricorrenti nel suo lavoro. La
fase successiva fu l’uscita dal formato
del quadro e, secondo uno spirito che cominciava a caratterizzare il lavoro
di molti, a passare dalla fase della rappresentazione a quella della
presentazione, che significava prendere elementi naturali ed esporli
direttamente, senza mediazioni. I materiali di Kounellis divennero rottami
metallici, cotone, semi, carbone, pietre. Volle investire anche la sfera olfattiva,
usando caffè in polvere e grappa
(uno dei suoi lavori più famosi è un tappeto formato di centinaia di
bicchierini pieni del liquore, il cui odore si avvertiva anche a molta distanza).
Un altro elemento primordiale alla base della sua poetica era il fuoco, ricavato spesso da fornelli di fiamma ossidrica, che
conferivano alle installazioni una apparenza di carica energetica, aumentata
dal rumore sibilante delle stesse. Anche le
tracce che il fuoco lasciava, i segni
di fumo sulle pareti, entrarono nel suo lavoro. Si rivolse anche al mondo vegetale e animale, inserendo piante di cactus, pappagalli vivi
per giungere a quella che è stata la sua opera più famosa e che, come molti
lavori di arte contemporanea, non è più visibile ma solo documentata da foto e
dal racconto di chi l’ha veduta nel breve tempo della sua presentazione: nel 1969, all’interno della galleria l’Attico di Roma, dodici cavalli vivi, legati al muro a distanza regolare.
Naturalmente i cavalli non erano statue, producevano rumore muovendosi,
nitrendo; producevano, ovviamente, anche odori ed altro. Riprendendo la poetica
del ready made di Duchamp, Kounellis la trasferiva dall’universo
inanimato degli oggetti a quello animale. Bisogna anche considerare che Kounellis, greco italiano, si portava
dentro un enorme retaggio culturale e i cavalli, nella storia dell’arte, hanno
un ruolo importantissimo. Sempre, considerando i suoi lavori, si può individuare
un forte substrato intellettuale, che affonda nella grande tradizione
occidentale, non solo figurativa ma anche filosofica, letteraria, musicale
(importantissima la musica, presente esplicitamente in varie opere). Nel 1967 il critico d’arte Germano Celant realizzò una mostra di
giovani artisti italiani, attribuendo al loro lavoro la definizione di “Arte Povera”. La maggior parte erano del
nord Italia, ma c’erano anche Kounellis e
Pino Pascali (pure del quale è in
corso, in questo periodo, una bella mostra a Venezia) che operavano a Roma.
La caratteristica del movimento era, secondo Celant, l’uso di materiali
poveri, naturali, per creare opere che rifiutavano l’aspetto decorativo, borghesemente rassicurante,
commerciale dell’arte ufficiale. Il lavoro di Kounellis si inseriva perfettamente in questo clima, anche se poi
le forti personalità degli artisti li portò su percorsi diversi e fortemente
personali. Kounellis accentuò la
monumentalità dei suoi lavori, con installazioni di grandi dimensioni, con
riferimenti che vanno dal Barocco a
Caravaggio, da Annibale Carracci a Rembrandt ai grandi ed eroici moderni, Picasso (spesso appare la
lampada di Guernica), Malevic, Pollock, Bacon, ma anche all’arte antica, con l’uso di calchi di sculture. La sua visione è drammatica, legata a un passato di cui si possono recuperare solo
frammenti e un presente radicato nella prima rivoluzione industriale, in
materiali duri e pesanti come il carbone e il ferro, macchine imponenti e
rumorose come le locomotive a vapore. Kounellis,
come i grandi artisti, si è confrontato col suo tempo, ha guardato al passato,
prossimo e remoto, si è posto in conflitto, con le sue grandi installazioni,
l’uso di materiali poveri, i suoni, gli odori, la corporeità (ha lavorato anche
per il teatro), ma anche la negazione dei corpi, presentando file di abiti
appoggiati sul pavimento, triste evocazione di un’umanità scomparsa. Ha
chiuso porte e finestre con muri di pietre, quasi a negare una realtà
esterna opprimente. Anche il colore scuro prevalente denuncia una certa
oppressione. Tutti i suoi lavori non
portano titolo eccetto uno, che si chiama “Tragedia civile”, presente in mostra. Si tratta di un attaccapanni con appesi un abito e un cappello scuri, vicino a un muro interamente
rivestito di foglia d’oro. Si
può pensare alla trasmutazione alchemica dallo stato vile della materia (nigredo) a quello perfetto,
inalterabile; alle icone bizantine e a quelle senesi: uno sfondo piatto e
astratto e un elemento scuro, tridimensionale, carico di memoria letteraria: un
doppio rapporto tra cultura ed identità. La mostra è allestita con grande sapienza,
le opere occupano in modo forte gli splendidi spazi del palazzo. Nelle intercapedini delle stanze ogni
lavoro è documentato con foto di passati allestimenti e testi, mentre al
piano terreno alcuni filmati documentano i lavori teatrali e, in una sala, un
video raccoglie interviste dell’artista. Infine, nel cortile accessibile al pianterreno, una grande installazione,
allestita la prima volta a Barcellona,
con una putrella metallica che raggiunge i piani alti del palazzo e, appesi a
varie altezze, piattaforme che contengono un sacco di caffè. Un forte segno
scultoreo di un artista che voleva essere definito pittore. Concludo segnalando
che alcune opere con la fiamma ossidrica vengono attivate per quindici minuti
in certi periodi della giornata, di solito alle 11,30 e alle 15.
SAURO SASSI
JANNIS KOUNELLIS. FINO AL 24 NOVEMBRE
FONDAZIONE PRADA VENEZIA, CA’ CORNER
DELLA REGINA
ORARIO: 10 – 18. CHIUSO IL MARTEDI’
BIGLIETTO EUR 10. RIDOTTO 8 STUDENTI
FINO A 26 ANNI, TESSERA FAI, ACCOMPAGNATORI DI VISITATORI DIVERSAMENTE ABILI.
GRATUITO PER INFERIORI AI 18 ANNI E SUPERIORI AI 65 E DIVERSAMENTE ABILI
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