Ognuno conosce la propria sofferenza.
Anche se la tentazione di generalizzare c’è…
(Articolo di © Mario De Maglie tratto dal portale de "Il Fatto Quotidiano" del 15/10/2019)
La vita è anche sofferenza? Un po’ per tutti, e per qualcuno più di altri certamente. Ma la vita è la somma di ciò che accade di buono a ciò che accade di male e le proporzioni variano per ognuno. Soffermiamoci su ciò che c’è di male o meglio su quel che siamo abituati a pensare come male; saremo d’accordo che soffrire non piace a nessuno.
Ognuno conosce la sofferenza che contraddistingue il suo vivere come dato di fatto e pensa di conoscere la sofferenza stessa in virtù del proprio rapporto privilegiato con essa. Ma questo è un rapporto unico, lo ha solo chi lo vive direttamente. E sebbene la tentazione di generalizzare sia forte e comprensibile, stiamo attenti.
C’è una sofferenza inevitabile, quella che ognuno di noi conosce perché fa parte del gioco; ma esiste anche una sofferenza che possiamo scegliere di conoscere e riguarda l’altro. Un qualcosa di istintivo avviene comunque con il processo mentale ed emotivo che chiamiamo empatia: non proviamo l’emozione dell’altro, ma possiamo comprendere cosa questi prova sulla base di emozioni ed esperienze comuni e regolare il nostro comportamento di conseguenza, attraverso un processo emotivo interno che ci dice cosa è bene e cosa è male e cosa ci fa stare bene o male in relazione all’altro.
C’è una sofferenza invece scelta, frutto di una deliberata decisione, intendendola come un’opportunità . Si accede alla sofferenza dell’altro ben sapendo che una parte di essa verrà integrata nel proprio esperire. Scegliere tale ipotesi implica che, se siamo in grado di arrivare liberamente e comprendere il soffrire altrui, questo può cambiarci dentro. Ma non solo: si è in grado di lenire e ridimensionare il proprio malessere. O forse quello che avviene è semplicemente dare un senso al soffrire, non considerandolo più un evento intimo e privato. È come se anche per il soffrire esistesse una sorta di comfort zone a cui si rinuncia con il paradossale risultato di stare meglio e di aumentare le proprie risorse interne vitali per affrontare le brutture della vita.
È il caso delle relazioni di aiuto in ambito socio-pedagogico-umanitario (insegnanti, educatori, psicologi, medici ad esempio). Coloro che intraprendono la via per arrivare al disagio dell’altro cercano talvolta solo una scappatoia per il proprio e fanno dell’energia negativa qualcosa di costruttivo, operano una trasformazione. Il dolore è di chi lo prova, ma anche di chi è in grado di farlo proprio sentendone l’iniquità , l’ingiustizia, l’impotenza. Il dolore è trasformativo, trasforma le persone e non necessariamente in peggio; il dolore è contagioso, contagia le persone, ma non sempre è una malattia.
Il dolore nasce dall’impossibilità della cura e muore quando diventa esso cura per se stesso. Quando ci si innamora davvero del proprio lavoro è perché rispecchia il proprio essere ed è in grado di potenziare tutto quanto intraprendiamo nel tentativo di colmare i nostri vuoti. E meglio siamo in grado di esercitare la professione, più questi vuoti vengono a essere – se non colmati – quantomeno tenuti sotto controllo. Quello che si cerca in fondo è solo un posto, un luogo, uno spazio, un tempo in cui “so-stare”, ossia saper stare.
Posta un commento