LA FORESTA E LA LUCE. DUE ARTISTI ALL’HANGAR BICOCCA
Il
quartiere Bicocca si trova alla
periferia nord est di Milano e,
nessuno oggi lo immaginerebbe, era un luogo di villeggiatura. Infatti il nome Bicocca deriva da una villa di delizia,
fatta costruire nel XV secolo dalla
nobile famiglia Arcimboldi. Tutta
questa zona mutò radicalmente a partire da fine
‘800, quando fu sede di grandi insediamenti industriali che si estesero al
vicino comune di Sesto San Giovanni.
Nel quartiere aprirono fabbriche storiche industrie come Breda, Pirelli, Falck, Marelli. La Breda
produceva carrozze e locomotive ferroviarie, macchine agricole e anche
strumenti bellici, come cannoni e proiettili. Lo stabilimento, chiamato Hangar Bicocca, venne a costituirsi
come un insieme di tre principali corpi
di fabbrica: un primo edificio, chiamato Shed, in mattoni, non molto alto, con grandi lucernari; la parte
centrale, un enorme capannone, si compone di tre Navate; infine, un edificio molto alto, di forma quadrangolare,
con soffitto a botte, chiamato Cubo.
Negli anni ’80 la Breda, che in
seguito cessò di esistere, cedette l’Hangar al Gruppo Ansaldo. In quegli anni, tutto il quartiere fu soggetto a un
progressivo processo di dismissione delle aree industriali storiche, mentre
sorsero edifici universitari, centri direzionali, residenze private e il Teatro degli Arcimboldi. L’Hangar fu poi acquistato dal gruppo Pirelli, che decise di trasformarlo in
spazio espositivo. Nel 2004 fu
commissionata all’artista tedesco Anselm
Kiefer, una colossale opera, “I
Sette Palazzi Celesti”, che ora occupa stabilmente una delle Navate. Davanti all’entrata, che ora
avviene da via Chiese, dalla parte
dello Shed, fu posta un’altra
scultura monumentale di Fausto Melotti,
“La Sequenza”. Gli altri spazi
ospitano mostre di arte contemporanea, dedicate ad artisti spesso da noi poco
conosciuti, riservando l’ambiente, più ridotto, dello Shed a giovani con un processo creativo ancora in corso e le Navate e il Cubo ad artisti già affermati a cui si offre la possibilità di
misurarsi con ambienti che, forse, non hanno eguali per dimensioni e
potenzialità ma che per questo richiedono progetti espositivi di grande forza.
Attualmente,
allo Shed, la mostra dello spagnolo Daniel Steegman Mangrané (Barcellona, 1977, da anni vive a Rio de
Janeiro) si intitola:”A Leaf-Shaped
Animal Draws The Hand”. Questo
titolo (“un animale a forma di foglia disegna
la mano”), così come quello delle 21
opere, è suggestivo, poetico. Riflette alcuni elementi tipici del lavoro di
Mangrané: gli animali, in
particolare gli insetti, e la vegetazione, quella della foresta brasiliana come
agenti del rapporto dell’uomo con l’ambiente. La mano, il disegno come
strumento di ricerca, di indagine sulle forme, sul colore, per progettare
opere. Mangrané, che ha anche una
formazione di studi di biologia, si è trasferito in Brasile, affascinato dalla foresta tropicale come universo in cui
cercare un nuovo rapporto uomo/natura, e anche dal lavoro e dalle idee di
alcuni grandi artisti locali come Lygia
Clark e Hélio Oiticica, che
diedero vita, tra fine anni ’50 e inizio ’60, a un movimento chiamato “Neo Concretismo” che, partendo dalle
teorie di Mondrian, Van Doesburg e altri di un’arte
astratta, che rifiutava la rappresentazione del reale e creava un universo
razionale di forme e colori, riteneva che l’arte dovesse, come diceva Rimbaud, cambiare la vita, e, per fare
questo, il corpo dello spettatore doveva porsi in rapporto con l’opera, con la
ragione ma soprattutto con i sensi, attraversarla, viverla. Da alcuni
antropologi radicali brasiliani Mangrané
ha derivato l’idea di un universo in cui uomo e natura sono un insieme di
relazioni, dove non esiste una soggettività definita perché è lo sguardo a
creare incessantemente la realtà , non ci sono più opere e osservatori ma solo
azioni dinamiche di mutua trasformazione. Queste idee sono rafforzate dalle
teorie dell’Arte Processuale, nate
negli anni ’60, secondo cui non è importante l’opera finita ma il percorso, che
può essere infinito, della ricerca creativa. La mostra in Hangar Bicocca, quindi, si presenta come un unicum, l’esito
provvisorio di un viaggio in divenire. Il simbolo di questo viaggio è un
insetto, il “Fasmide” o “Insetto stecco”, che appartiene a
quella categoria di insetti che si mimetizzano nell’ambiente, assumendo la
forma di un ramo o di una foglia. Questo insetto viene assunto da Mangrané come segno della connessione
tra mondo animale e vegetale e appare in diverse rappresentazioni: film,
ologrammi e, infine, dal vivo, in una struttura in vetro ondulata che contiene
vegetazione della foresta e insetti che si mimetizzano e ci sfidano a
riconoscerli. Mangrané usa diversi
strumenti espressivi: dalla cinepresa a 16 millimetri che ci porta dentro la Mata Atlantica, foresta ricchissima di
biodiversità , che si estende tra Brasile
e Paraguay; al disegno, per indagare
le infinite combinazioni di forma e colore; all’ambiente abitabile, rivestito
da pellicola arancione, che mette in discussione la nostra percezione della
luce; al tavolo, su cui ha disposto elementi organici e no, che potrebbero
suggerire nuove opere (ancora l’arte come processo); al suono, una musica che
si diffonde nell’ambiente, realizzata da una flautista che ha improvvisato sul
forte rumore registrato in una piattaforma petrolifera, che le impediva di
sentire il suono che stava creando. Gli ambienti dello Shed sono stati modificati aprendo tutte le finestre e i lucernari
per permettere l’ingresso della luce naturale e disponendo pannelli sinuosi di
un tessuto semi trasparente che serve a rendere le forme dei visitatori
evanescenti, quasi fantasmatiche, come il nome scientifico dell’insetto stecco:
fasmide. Tra tutte le opere, i cui
titoli derivano anche dai versi di una poetessa brasiliana, una sola riporta
una rappresentazione umana: l’ologramma di una mano con foglie, che sembra
suggerire, ancora, la relazione tra uomo e natura.
Al
termine dello Shed, attraversando
una tenda si entra nelle Navate,
spazio enorme, altissimo, privo di luce naturale, con pareti e soffitto neri. Cerith Wyn Evans (Galles, 1958) ci accoglie con sette
colonne di materiale traslucido che, dal soffitto, giungono a sfiorare il
pavimento (contraddicendo così la propria funzione: non reggono ma sono rette).
Le colonne contengono un impianto a led che le fa illuminare di una luce sempre
più forte, con sequenze regolate da un programma che fa sì che il processo sia
in continuo divenire: mentre alcune si spengono, rivelando, attraverso la
trasparenza, la propria struttura interna, altre si illuminano e, solo
raramente, sono accese tutte insieme. Già in questa prima opera Evans ci presenta l’elemento che
caratterizzerà tutta la mostra: la luce,
la sua sequenza, il suo viaggio, il suo rapporto con lo spazio e il tempo.
Anche la sua apparenza, perché, nello sviluppo storico e tecnologico, si è
passati dall’illuminazione a petrolio e gas alle lampade ad incandescenza, al
neon, al led. Il risultato è una luce sempre più fredda, che connota quindi
diversamente ciò che rivela. Lo vediamo anche nella illuminazione pubblica, di
strade e monumenti, che perde sempre più quei toni caldi a cui eravamo abituati
e che tanto amavamo. La mostra si intitola “…the Illuminating Gas” e fa
riferimento a un artista che è centrale per l’ispirazione di Evans: Marcel Duchamp, colui che ha cambiato
per sempre l’idea di arte. La sua ultima opera, a cui lavorò nascostamente per
due decenni, e che venne mostrata dopo la sua morte, si intitola “Etant
donnés: 1° la chute d’eau/ 2° le gaz d’éclairage” (in inglese gaz d’eclairage si traduce appunto illuminating Gas). Si tratta di una
composizione, conservata al Philadelphia
Museum of Art, in cui, attraverso due fori in una porta chiusa, si vede una
donna nuda che regge una lampada, con alle spalle un paesaggio. Senza entrare
nella complessità di interpretazione dell’opera, la luce vi gioca un ruolo
fondamentale, sia simbolicamente che come rivelazione. L’opera di Duchamp è un passaggio importante di
una ricerca sulla luce che ha caratterizzato tutta la storia dell’arte. Leon Battista Alberti, nel trattato “Della
pittura” scriveva: “Esprimiamo così l’essenza della pittura
quando diciamo che essa è fatta di queste tre cose: circoscrizione,
composizione e ricezione della luce”. Con questo tema si sono
confrontati tutti gli artisti, dai primitivi ai moderni, pittori ma anche
scultori, basti pensare alla “Transverberazione
di Santa Teresa” del Bernini,
dove la statua della Santa in estasi viene investita da solidi raggi di luce
dorata (in fondo ci sono rapporti con l’opera di Duchamp, che voleva che la luce della lampada illuminasse il sesso
della donna). Un passaggio sostanziale, comunque, avviene quando, ancora con Duchamp, gli oggetti della vita
quotidiana vengono inseriti nell’opera, a partire dalla ruota di bicicletta. A
questo punto, e in seguito allo sviluppo industriale, la luce può entrare
nell’opera non più come creazione dell’artista ma nella concretezza degli
strumenti che la producono: lampadine, neon, laser. Il primo a usare il neon
come strumento per fare arte è stato Lucio
Fontana, e basta dare un’occhiata da piazza
Duomo, in alto, all’ultimo piano del Museo
del Novecento, per vedere una sua installazione luminosa del primo
dopoguerra che formalmente non differisce molto dai lavori di Evans in Hangar Bicocca. Altri artisti che hanno utilizzato le luci al neon
sono Dan Flavin, Mario Merz, Maurizio Nannucci, Joseph
Kosuth, Bruce Nauman. Ricordo anche le scritte al led
di Jenny Holzer. Cerith Wyn Evans, che aveva iniziato
col cosiddetto cinema strutturale,
caratterizzato dalla non narratività , e con la musica concreta, ha mantenuto
l’idea che l’arte debba investire il fruitore, coinvolgerlo sensorialmente ma
anche razionalmente, attraverso la spettacolarità delle opere ma anche gli
infiniti rimandi culturali che esse contengono. Così nello spazio monumentale delle
Navate ha creato un poema della
luce, attraverso l’uso di grandi installazioni al neon. La forma di questi
agglomerati di luce richiama i movimenti del teatro Noh giapponese. Un’opera, “Radiant
Fold (… the illuminating gas”) è
la citazione letterale di un particolare del lavoro di Duchamp detto “Il grande
vetro”, e sempre da Duchamp deriva la forma
dell’intelaiatura che sostiene trentasette
flauti di vetro che, attraversati dall’aria dell’ambiente, creano un suono che
ricorda la cadenza del respiro e che invade tutte le Navate, invitando a un percorso meditativo. L’altra grande installazione
al neon che domina l’ambiente proviene direttamente dalla Tate Britain di Londra. Si chiama “Forms in Space… by Light
(in Time)”. Il titolo riassume tutti
gli elementi che caratterizzano il suo lavoro (Forme, Spazio, Luce, Tempo). Evans ha disegnato il percorso di
questi chilometri di tubi di luci al neon ricavando suggestioni da lavori di Duchamp, ancora dai movimenti del teatro Noh e da altre immagini,
compresa la rappresentazione della molecola del LSD. Il percorso porta ad attraversare le Navate e a dirigersi
verso lo spazio finale, il Cubo.
Avvicinandosi, il suono rilassante dei flauti viene sopraffatto da rumori di
musica concreta che provengono da una “colonna
di suono” formata da una semplice base circolare che trasmette verso l’alto,
mentre nel Cubo lo spazio, invaso dalla
luce naturale che viene dal soffitto, risulta caotico, in antitesi con quello
precedente. Ancora installazioni luminose, compreso una specie di “Mobile” alla
Calder fatto con altoparlanti e
specchi che offrono esperienze sonore e visive sempre diverse a chi lo
percorra. Una grande scritta al neon descrive l’evoluzione di un’eclisse che
attraversa diverse aree geografiche, mentre un’installazione con piante, di cui
due ruotano lentamente, variando così di continuo la loro posizione e
contraddicendo il titolo di “Still Life”, rimandano a un altro
artista che ha molto influenzato Evans,
il belga Marcel Broodthaers. Per
vedere l’ultima opera della grande mostra, che è anche la meno recente, occorre
uscire e percorrere tutto il perimetro delle Navate per raggiungere la parte esterna posteriore. Una piccola
scritta al neon: la parola exit rovesciata
davanti a una porta di ingresso chiusa. In realtà , attraversandola, si
entrerebbe e quindi, ancora una volta, l’artista vuole spiazzare, mettere in
discussione la percezione. Prima di abbandonare la mostra è indispensabile
accedere alla terza navata, che fiancheggia quelle che ospitano i lavori di Evans, e vedere la stupenda
installazione delle “Sette Torri Celesti” di Anselm Kiefer,
considerando il loro dialogo con le sette colonne di luce dell’artista gallese.
“La
distanza è luce, lo spazio di tempo in cui tu penserai che non ci sono
frontiere. Così, noi siamo la distanza” (Edmond Jabès).
SAURO SASSI
Daniel Steegmann Mangrané: “A
Leaf-Shaped Animal Draws The Hand Fino al 19 Gennaio 2020
Cerith Wyn Evans “… the Illuminating
Gas”
Fino al 23 Febbraio 2020
PIRELLI HANGAR BICOCCA Via Chiese 2
Milano
Da giovedì a Domenica dalle 10 alle 22 –
da lunedì a mercoledì chiuso
Ingesso libero
Per arrivare: dalla stazione centrale
bus 87 in direzione Sesto San Giovanni. Scendere alla fermata via Chiese Hangar
Bicocca
Col Metro: Linea Gialla fino a Zara e
poi Linea Lillà fino a Ponale. Poi a piedi, trecento metri o due fermate di bus da via Chiese
Posta un commento