La famiglia ai tempi del coronavirus

Arianna Marzotto 

fonte: universalmovies,it

Questa mia riflessione,  piuttosto attuale rispetto a questo singolare momento storico, parte dalla casuale visione ravvicinata di due film, "Summer of Kikujiro" di Takeshi Kitano (1999) e "The Florida Project" di Sean Baker (2017).

Nell'opera del maestro Kitano, il protagonista è Masai, un bambino di otto anni che vive con la nonna in una Tokio periferica che si potrebbe definire povera ma dignitosa.
Siamo all'inizio dell'estate e il piccolo Masai, così ingenuo da sembrare un pochino tonto, viene sorpreso dall'interrompersi brusco delle attività scolastiche e sportive, che erano poi il suo modo per sentirsi sicuro grazie ai ritmi temporali scanditi e le uniformi (scolastica e calcistica). Infatti, fin dalle prime scene, Masai apprende che un compagno, forse il suo unico amico, passerà l'estate al mare con la sua famiglia. Masai, invece, come dicevo vive con la nonna la quale è giovane e lavoratrice. In una delle prime scene, il piccolo si trova senza nulla da fare dopo aver mangiato il pranzo lasciato amorosamente dalla nonna, infatti appare triste e si capisce che non ha i genitori perché guarda con nostalgia una foto del matrimonio di essi. Insomma, una libertà vissuta come scomoda, quella estiva, per un bambino solo e piuttosto convenzionale che infatti si annoia.
Facendo un rapido parallelismo con la nostra condizione attuale, l'horror vacui che prima i genitori tenevano a bada con ritmi frenetici tra scuola, compiti, sport, corsi di lingua, hobby preconfezionati e rassicuranti -dove gli stessi genitori si negano qualsiasi momento di vuoto, correndo freneticamente tra lavoro e palestra oppure alienandosi nel divertimento obbligatorio- talvolta anche con vacanze programmate al minuto o aperitivi o cinema ammazzatempo per non parlare dei social o quegli alienanti videogiochi da smartphone.
La paura vera e purtroppo comprensibile è quella di restare soli con sé stessi e quindi provare angoscia o peggio la noia, e non intesa quest'ultima come otium illuminato e creativo, ma come vera e propria alienazione. 

"The Florida Project", del giovane regista indipendente Sean Baker, appare molto differente rispetto al capolavoro di Kitano appena citato, sia per la scelta del registro stilistico (i film giapponesi del resto fanno scuola a sé) sia per la diversità di contenuti, eppure mi è venuto spontaneo trovare dei parallelismi senza forzature.
Di qui, credo, il desiderio o meglio la compulsione nel rincorrere stimoli e dopamina "precotta" attraverso diversi mezzi più o meno pericolosi come l'uso smodato e compulsivo di social, selfie, videogames e, nei casi peggiori, alcol, gioco d'azzardo, droghe o addirittura violenza di vari generi. Alberto Moravia nel suo romanzo "La noia" descrive attraverso il protagonista questo sentimento come la mancanza di qualcosa, facendo l'esempio di quando era piccolo e sua madre, non volendolo vedere annoiato dal momento che erano benestanti, lo trascinava continuamente al cinematografo.
Lo sfondo è sempre il medesimo per tutto il film: una moltitudine di motel a basso mantenimento di quella che a prima vista apparirebbe come una favela, chiamata dalla critica "community" che io mi azzardo a definire una vera e propria tribù. Infatti, in comune con la favela ha solo la povertà (ovviamente in misura minore), la mancanza di molti comfort e la totale assenza di beni di lusso o addirittura di attuale largo consumo, ma è diffusa un'allegria dissonante rispetto al setting ma non per questo non contagiosa unita ad una necessaria ma virtuosa senza quel registro retorico, stucchevole e stilizzato/standardizzato anzi naif che notiamo spesso nelle opere artistiche con protagonisti "gli ultimi" oppure i bambini.
"The Florida Project" è presentato da Baker in primo luogo come una denuncia sociale di una realtà poco conosciuta e molto imbarazzante per altro attuale, ovvero il misero trattamento riservato ai lavoratori del dietro le quinte del notissimo parco divertimenti Walt Disney World Resort presso Orlando, Florida. In realtà, se si ascolta l'intervista al regista che lascio come link in fondo a questa mia riflessione, si notano non pochi spunti sociologici e addirittura pedagogici.
fonte: streemit.com

La protagonista è Moonee, una bambina di 6 anni che vive nel motel Future Dream insieme alla giovane madre Halley. Per tutto il film, Moonee non è mai sola: se la madre lavora o è assente fisicamente, lei è sempre in compagnia di coetanei, un vero e proprio branco di cuccioli vivacissimi: l'arte di arrangiarsi e improvvisare con fantasia unita a virtù è presente già in questa categoria dei piccoli. 

Colui che veglia e regolamenta questa fauna così variegata, scapestrata e piuttosto scomposta è Bobby, interpretato da un meraviglioso Willem Dafoe, che non è solo il capotribu, bensì il padre di tutti soprattutto degli adulti (nei dialoghi con Halley, mamma di Moonee, si esprime questo suo ruolo paterno ma mai paternalistico. Bobby è insieme autorevole e protettivo, coerente verso le regole che lui stesso ha stabilito per arginare quella "fauna" selvatica e tendenzialmente ribelle: illuminante è la scena dove Bobby parla alla sua gente con sincera umiltà e anche buonumore annunciando che ha ristabilito l'elettricità (ovvero ridona la luce) cosìcche potranno utilizzare videoregistratori-siamo nel 2017!-ghiaccio e aria condizionata. E la gente acclama sinceramente: "We love you Bobby" e lui risponde: "I love you too" tutto con un'assenza totale di sdolcinature.
Fin dalle prime scene, queste "Simpatiche Canaglie" - quest'ultima deliziosa e assestante serial statunitense del 1922-1944 è indicata dal medesimo regista Baker- nonché prole dei lavoratori e inquilini di questo complesso suburbano assurdo e colorato dei toni del confetto, fa storcere il naso allo spettatore politicamente corretto, che vede piccoli selvaggi scatenati e apparentemente senza regole che corrono e urlano allegramente allo stato brado con ritmi molto (troppo?) rilassati e senza andare a scuola. Poi subito dopo si scopre che in effetti è estate e che i genitori o parenti  che si prendono cura di loro vivono alle porte o meglio alla "periferia"di Walt Disney World Resort, per svolgere lavori più o meno umili e dignitosi ma sicuramente non ben retribuiti. Eppure, chissà perché, essi non ci appaiono genitori peggiori di molti integrati nella società. Frugale insomma questo leader, cosa che da un qualunque capo non ci aspetteremmo;  senza privilegi quindi, e talmente coerente nel pensiero e nelle azioni da disarmare anche la Halley più ribelle. Fa quello insomma che un padre virtuoso e amoroso dovrebbe fare: pensare al bene comune facendo seguire regole sensate e indispensabili per il benessere comunitario, come far pagare l'affitto in modo puntuale senza minacce fini a sé stessi e senza il minimo abuso di potere.
Entrambe le pellicole che ho preso in esame mi paiono avere diversi punti di contatto: il buonumore che è contagioso, l'improvvisazione creativa nel trovare soluzioni alle molteplici avversità quotidiane, lo scomodo tema della pedofilia sfiorato velocemente e in modo esemplare dal punto di vista della delicatezza e del buon gusto unite all'assenza di giudizio, il gioco preso sul serio che cura e sublima come l'arte arrangiata e buffa di Kikushiro-il coprotagonista dell'omonimo film- l'arte di alleggerire i drammi attraverso l'ironia, il far rivivere catarticamenre una esperienza del banbino in questione più o meno traumatizzante attraverso messe in scena praticamente teatro della improvvisazione, e in Kitano addirittura il sogno.
Per parlare ancora del sentimento della noia, esso qui assume, attraverso questi bambini, una connotazione "sana". Allo spettatore mano a mano vengono a mancare anzi si sgretolano tutti i luoghi comuni e pregiudizi del populista benpensante, dato che si accorge che in effetti a questi bambini non manca nulla, e la riprova è il buonumore diffuso. Essi giocano a gruppi all'aria aperta, si nutrono bene e sono ben sorvegliati e inoltre molto gentili :  "grazie" e "scusa" sono espressioni che ricorrono spesso ma con estrema spontaneità senza la sensazione di affettazione che ho spesso notato nei bambini "beneducati" e addestrati senza anima dagli adulti solo per fare bella figura. Questi piccoli mancano in effetti di tecnologia avanzata ovvero la nostra attuale: il film si svolge nel presente eppure sia gli abiti sia la mancanza di telefonini sia l'innocenza ci faceva inizialmente pensare agli anni '80. Eppure neanche questa mancanza sembra renderli infelici. In compenso la noia che ho chiamato "sana" si esprime genuinamente in una scena: con sbuffi e versi Mooney e il suo coetaneo Scooty languiscono nel torrido sole della canicola, ma di lì a poco la noia poco prima espressa quasi teatralmente, si dissipa con l'attenta e quasi scientifica osservazione di un ragnetto di passaggio e relative trovate umoristiche che finiscono in esilaranti manifestazioni di humor bambinesco.
Vivere il presente ovvero il qui e ora con il buonumore a prescindere dalle difficoltà personali e la schiavitù degli oggetti o status symbol pare funzioni per scongiurare l'ansia, l'angoscia e le psicosi e ad oggi sembra l'unico modo per evitare che i nostri figli siano gli infelici di domani.
Queste famiglie improvvisate e sconclusionate sembrano funzionare benone, a dispetto dei preconcetti e pregiudizi iniziali del fruitore, e la riprova è una sola ma significativa: il buon umore e la complicità benevola di adulti e bambini, a dispetto delle innegabili difficoltà materiali e di disagio sociale (in Kitano più introspettivo in Baker più materiale ovvero pratico).

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