FOTOGRAFIA E SGUARDO FEMMINILE IN MOSTRA A FORLI’
Anche nel campo dell’attività fotografica l’accesso delle donne non è stato facile.
Sembrava che sia il lavoro in studio che il reportage fossero pratiche prettamente
maschili. Una bella mostra ai Musei di San Domenico a Forlì presenta quella che,
mutuando il titolo del famoso libro di Lea Vergine, si potrebbe definire l’altra metà
della fotografia. La scelta dei curatori è di partire dagli anni ’30, quando, col
diffondersi delle riviste illustrate, la fotografia assunse un’enorme diffusione:
divenne racconto, aprendo grandi percorsi tematici attraverso le storie di popoli,
guerre, singoli individui che meritavano attenzione per evidenziare temi universali.
L’esposizione si concentra su questi reportages, che permettono di verificare anche
la visione, la tecnica, lo stile delle fotografe. Si divide in tre sezioni. La prima
presenta fotografe leggendarie, che hanno affrontato, tra gli anni trenta e
cinquanta, i temi della crisi economica, della guerra, della ricostruzione e del
formarsi di nuovi costumi sociali. Inizia con Dorothea Lange (1895-1965),
statunitense, che, su incarico dell’agenzia “Farm Security Administration”, creata per
documentare e combattere la povertà causata nelle campagne dalla grande
depressione, insieme ad altri fotografi (tra cui il grande Walker Evans), percorse le
aree più depresse, quelle raccontate da John Steinbeck nel romanzo “Furore”,
realizzando scatti che mostravano la miseria, la solitudine ma anche la dignità di un
popolo costretto a partire con mezzi di fortuna per cercare altrove la possibilità di
sopravvivere. Un’immagine, “The Migrant Mother”, è divenuta un’icona della storia
della fotografia e ancora oggi commuove e risulta tragicamente attuale. Tina
Modotti (1896-1942) raffigura il Messico rivoluzionario, le lotte dei lavoratori,
piegando a queste istanze sociali la lezione stilistica ricevuta dal fotografo
statunitense Edward Weston, per un periodo suo compagno. Gerda Taro (1910-
1937), tedesca di buona famiglia, comunista, andò in Spagna assieme al suo
compagno Endre Friedmann, ungherese, a documentare la guerra civile dalla parte
dei repubblicani. Insieme inventarono il nome Robert Capa che, con le sue
assonanze americane, risultava più attrattivo per vendere le loro foto (Friedmann
mantenne poi per sempre questo nome, anche in ricordo di lei, che morì durante la
guerra, schiacciata da un carro armato). Le immagini più toccanti di Gerda sono
quelle in cui documenta la vita quotidiana dei combattenti, in particolare le donne.
Presente la sua foto più famosa, in cui una donna si esercita con la pistola ma,
invece che calzature militari, indossa scarpe col tacco, a mostrare il diverso
approccio che le donne avevano con una guerra comunque subita e non voluta.
Anche Lee Miller (1907-1977), allieva di Man Ray, fece servizi di guerra, seguendo le
truppe americane in Germania e documentando, oltre agli orrori dei campi di
concentramento, le abitazioni in cui erano vissuti i gerarchi nazisti, realizzando la
famosa foto in cui fa il bagno nella vasca di Hitler. La mostra prosegue con le foto di
costume di Gisèle Freund (1908-2000); quelle piene di coraggio e ottimismo di
Margaret Bourke-White (1904-1971), che non esitava a rischiare la vita per
documentare il lavoro che portava progresso; la trasformazione della città di New
York in grande metropoli moderna negli scatti di Berenice Abbott (1898-1992); i
ritratti acri della borghesia e i giochi di rilessi sulle vetrine di New York di Lisette
Model (1901-1983). Ruth Orkin (1921-1985) rappresenta il passaggio alla seconda
sezione dove si documentano i cambiamenti sociali dopo la fine della seconda
guerra mondiale. Nella serie della fotografa americana, “When you travel alone”, si
documenta il tour in Italia di una solitaria viaggiatrice (una sua amica): un reportage
dove, però, parecchie immagini non sono immediate come si vorrebbe farle
apparire, ma frutto di una messa in scena: in particolare la foto più famosa, che
vorrebbe mostrare il gallismo del maschio italico che, qualunque sia la sua età e
condizione, non può non volgersi ad ammirare la bella straniera (si trattava di
un’immagine costruita). Se da un lato si problematizza il rapporto con la realtà, la
foto diventa anche più attenta a condizioni sociali e culturali particolari e si fa più
politica, come in Eve Arnold (1912-2012) che documenta il lavoro degli stilisti afro
americani, che lavoravano e presentavano le loro modelle in contesti del tutto al di
fuori dai circuiti patinati della moda ufficiale. La Arnold creava un rapporto di grande
vicinanza ed empatia con le donne che rappresentava e questo tipo di
atteggiamento caratterizzerà il lavoro anche di molte altre fotografe a venire. Così
Susan Meiselas (1948), descrive la vita e il lavoro di spogliarelliste che si esibiscono
in locali di bassa lega negli Stati Uniti, e, avendo conquistata la loro fiducia, le segue
anche nei camerini e nella vita privata, per documentare criticamente un aspetto
poco conosciuto della condizione femminile in quel contesto negli anni ’70. Anche
Paola Mattioli (1948) si occupa, sulla traccia del movimento femminista, di una
indagine sull’immagine delle donne, invitandole a mettersi davanti a uno specchio e
a creare esse stesse la propria (auto) rappresentazione, inserendo anche le sue
immagini, per realizzare un ritratto femminile collettivo. Lisetta Carmi (1924)
documentò la comunità dei travestiti genovesi. Ancora una volta una donna riusciva
a conquistare la fiducia di persone emarginate che, contando sulla sua correttezza,
vicinanza ed onestà concettuale, le consentivano di fotografarle nel proprio
ambiente e di giocare, anche ironicamente, sulla loro rappresentazione. Carla Cerati
si immerge nell’ambiente della Milano rampante degli anni ’70, dove, indifferenti
alle tensioni che attraversavano la società, le signore bene continuavano i loro riti
mondani, così come le descriveva, con splendida cattiveria, Camilla Cederna. L’uso
della fotografia in funzione antropologica, per descrivere determinati ambienti
culturali, ritorna nel lavoro che Graciela Iturbide (1942) dedica a una comunità
nativa nello stato di Oaxaca in Messico, dove le donne rivestono un ruolo guida e
ricevono rispetto e attenzione i mux, maschi che si riconoscono nel genere
femminile. Le immagini oscillano tra rappresentazione realistica e fantastica, magica
e surreale. Inge Morath (1923-2002) ci porta invece nella New York intellettuale, in
cui la critica sociale si fonda su un umorismo ebraico molto puntuto. La fotografa
trova la complicità di un grandissimo illustratore ed umorista, Saul Steinberg, che,
richiesto di posare per un ritratto, si presenta con la testa infilata in un sacchetto di
carta su cui ha disegnato tratti tra il buffo e l’inquietante. Da qui nasce una serie di
lavori in cui amici dei due posano con le maschere disegnate da Steinberg,
inserendo, in questi ambienti raffinati e tra queste persone bene un elemento di
ambiguità, un sentimento di minaccia, l’idea di una perdita di identità. Per me una
scoperta e uno dei momenti più intelligenti e alti della mostra. Diane Arbus (1923-
1971), di famiglia agiata, viveva con disagio esistenziale nella società americana.
Imparò a fotografare frequentando famose fotografe ma in particolare fu Lisette
Model (presente in mostra) a insegnarle non solo la tecnica ma lo spirito per
affrontare questa pratica. Era attratta dai “mostri”, quegli esseri umani che uscivano
dai canoni normali (nani, giganti, deformi) e che quindi erano posti ai margini sociali
(guardò con grande attenzione il film “Freaks” di Tod Browning). Ancora una volta
l’essere donna le consentiva di realizzare un’empatia con queste persone che si
facevano ritrarre con la fiducia di non essere giudicate o derise. La depressione di cui
soffriva la spinse al suicidio, quando era già una fotografa famosa. Torna a un
racconto intimo la serie di Dayanita Singh (1961), indiana, che documenta la
comunità “Hijra”, transessuali e transgender, disprezzati ed emarginati, L’amicizia
stretta con una di essi la porta a descrivere la sua vita, le difficoltà, gli sforzi per
mantenere gli affetti, le crudeltà subite, con grande partecipazione emotiva. Letizia
Battaglia (1935) è famosa per le foto sconvolgenti delle vittime della mafia (fu la
prima a riprendere Piersanti Mattarella massacrato nella sua auto) ma poi ha voluto
passare dalla rappresentazione dell’orrore a quella della bellezza delle donne e delle
bambine siciliane, sempre con grande complicità. Annie Leibovitz decide di inserire
nello storico calendario Pirelli non immagini di bellezze nude e asettiche ma donne
che si distinguono in vari campi artistici e professionali e che quindi rappresentano
esempi positivi di affermazione femminile. La mostra prosegue cronologicamente
documentando gli anni ’90 e il post 2000, anni in cui arrivano internet, il digitale,
photoshop. Viene messo in discussione il modo di proporre le immagini, la loro
efficacia, il loro rapporto con la realtà e si allarga anche il campo di chi utilizza gli
strumenti visivi, non più solo fotografe europee e statunitensi ma di tutto il mondo,
che portano sguardi, culture, esperienze differenti. Le donne inseriscono sempre nel
lavoro fotografico le loro peculiarità, la sensibilità, la ricerca di empatia coi soggetti,
ma anche il sogno, l’ironia. Tra le ultime vorrei ricordare Silvia Camporesi (1973) che,
in tempi di limitazioni alla mobilità causate dal Covid, esplora la sua casa, il giardino,
documentando piccoli oggetti, anche rotti, muri scrostati, i resti di un pasto, pezzi di
giocattoli, e la sua bambina, che diviene complice di queste esplorazioni,
dimostrando che, anche da queste piccole cose, rappresentate con l’attenzione della
fotografa professionista e sensibilità femminile, si possono ricavare momenti di
dolce poesia.
Sauro Sassi
ESSERE UMANE – LE GRANDI FOTOGRAFE RACCONTANO IL MONDO
MUSEI SAN DOMENICO FORLI’ – FINO AL 30 GENNAIO 2022
MARTEDI’ / DOMENICA H. 9,30/19. PRENOTAZIONE NON
OBBLIGATORIA
BIGLIETTO INTERO EUR 12. RIDOTTO EUR 10 (MINORI 18 ANNI E
MAGGIORI DI 65, CONVENZIONI TRA CUI ANCHE LA CARTA CULTURA
DEL COMUNE DI BOLOGNA
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