IL LAVORO E LA TECNOLOGIA NEL LINGUAGGIO DELLA FOTOGRAFIA

 IL LAVORO E LA TECNOLOGIA NEL LINGUAGGIO

DELLA FOTOGRAFIA



La benemerita fondazione Mast di Bologna ha allestito in un bell’edificio recente,

che accoglie i visitatori all’esterno con sculture di Mark di Suvero, Anish Kapoor,

Robert Indiana, l’unico museo mondiale dedicato alla documentazione fotografica

del lavoro e dell’industria. In realtĆ , all’interno ĆØ possibile trovare anche spazi per

laboratori didattici, un auditorium che ospita programmazioni cinematografiche e

incontri con studiosi su temi legati alle mostre in corso. Questo, ma anche altro,

come un asilo aziendale aperto alla cittĆ  e altre attivitĆ  benefiche, fa capo a Isabella

Seragnoli, che controlla il gruppo industriale Coesia, a cui appartiene l’azienda GD,

leader nelle macchine automatiche per il packaging di tabacco e altri prodotti. La

Seragnoli appartiene a quel tipo di imprenditori che pensano che l’attivitĆ 

industriale non debba essere disgiunta dall’attenzione alla propria comunitĆ ,

fornendo servizi e anche strumenti per avvicinarsi al mondo produttivo, soprattutto

da parte dei giovani. A Bologna avevamo anche l’industriale farmaceutico Golinelli,

morto recentemente ultracentenario, che pure, attraverso una Fondazione e un

bello spazio che non ĆØ distante dal Mast, offre agli studenti di varie etĆ  la possibilitĆ 

di avvicinarsi ai temi della ricerca scientifica e tecnologica, attraverso laboratori e

svariate attivitĆ  didattiche. Due bellissimi esempi di imprenditori illuminati. Il Mast

(Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), organizza mostre fotografiche,

concorsi e anche una biennale sulla fotografia industriale, e ha raccolto una

importantissima collezione di immagini, che va dai grandi maestri, ai giovani talenti,

agli sconosciuti, che si sono cimentati nella documentazione di lavoro umano,

macchine, tecnologia, ambiente. Ora oltre cinquecento di queste, tra foto, filmati,

album sono proposte alla visione dei visitatori, occupando tutti gli spazi interni. Il

curatore, Urs Stahel, ha realizzato un percorso che parte dal XIX secolo, quando la

fotografia nacque e iniziĆ² a definire la propria natura di strumento di

documentazione ma anche di interpretazione della realtĆ , proseguendo poi nei

secoli ventesimo e ventunesimo secondo un percorso alfabetico, in cui una serie di

parole, da “Abandoned” a “Wealth”, riportate in una striscia in alto, suggeriscono i

temi rappresentati, mentre altre parole, piĆ¹ in chiaro, propongono un allargamento

della riflessione. Una soluzione un po’ macchinosa, a fronte della assoluta qualitĆ 

delle immagini esposte. Si va da fotografi anonimi, magari incaricati dalle imprese di

documentarne produzione, il luogo, i lavoratori, a riconosciuti maestri che, o per

interesse personale o per commissioni ricevute, hanno affrontato questo tema.

Robert Doisneau, ad esempio, famoso per le foto nelle strade di Parigi, il “Baiser” e

cosƬ via, lavorĆ² alcuni anni, prima della seconda guerra mondiale, per la Renault,

documentando la fabbrica e i lavoratori. Si puĆ² dire che i grandi fotografi

rappresentino molti dei possibili modi in cui si possono utilizzare le immagini per


affrontare il tema del lavoro, in relazione alle loro specifiche tecniche e poetiche. Lo

sperimentalismo di Man Ray, che negli negli anni ’30, su commissione di un’azienda

elettrica, realizzĆ² una serie di immagini con la tecnica che chiamava “Rayograph”,

che consisteva nel posare oggetti sulla carta sensibile per catturarne un’immagine

fantasmatica, senza usare la fotocamera. La ricerca della perfezione formale di

Edward Weston, qui applicata nella rappresentazione dei camini di una acciaieria

invece che alle forme naturali o al corpo umano. Margaret Bourke White,

appassionata del progresso industriale, capace di esporsi in bilico su un grattacielo

per documentarne la costruzione e poi una delle poche donne fotografe sulla scena

della seconda guerra mondiale, all’inizio degli anni ‘30 conferisce aspetto scultoreo a

viti e bulloni, cosƬ come a edifici industriali. La grande attenzione alla composizione

dell’immagine ha sempre caratterizzato il lavoro di Edward Steichen, di cui si puĆ²

vedere una foto di ciminiere del 1926 che appare una visualizzazione quasi astratta

di volumi nello spazio. Altri fotografi si dedicano alla rappresentazione dell’essere

umano in rapporto al lavoro, illustrandone il lato tragico, come la “Madre migrante”

di Dorothea Lange, che mostra una donna vittima della grande depressione, che

aveva tolto agli americani le risorse per vivere e li costringeva a partire alla ricerca di

un futuro. A questo versante sociale appartiene l’indagine sullo sfruttamento del

lavoro minorile realizzata, all’inizio del 1900, da Lewis Hine, che scosse fortemente i

cittadini americani e indusse le autoritĆ  a interventi per modificare questa

condizione. L’operaio metalmeccanico con occhiali (1955) mostrato in primissimo

piano da Eugene Smith, con un forte chiaroscuro, ci dice dell’orgoglio del lavoratore,

e si puĆ² riallacciare a immagini degli anni 30, come l’operaio di Max Alpert o a

quelle della propaganda sull’operaio artefice del futuro di matrice sovietica. C’ĆØ poi

un filone che analizza gli stabilimenti industriali con intento classificatorio, come

fanno i coniugi tedeschi Bernd e Hilla Becher, che riproducono centinaia di edifici

appartenenti a attivitĆ  industriali in via di dismissione, distinguendoli per tipologia

(gasometri, torri dell’acqua, altiforni, …) e riprendendoli sempre nelle medesime

condizioni di luce, in posizione generalmente frontale. Non sono interessati alla

singola immagine ma alle serie, che vengono presentate insieme. Cercano l’assoluta

oggettivitĆ , l’assenza di ombre che possano drammatizzare quella che diventa una

pura rappresentazione di linee e volumi. Su questa strada si ĆØ posto anche Gabriele

Basilico, con la serie “Milano, ritratti di fabbriche”, realizzata a fine anni ’70. Anche

nel suo caso le immagini assumono connotati da archeologia industriale,

mostrandoci come era la cittĆ  della produzione, che si ĆØ poi trasformata in quella dei

servizi. Anche un grande innovatore del reportage come Robert Frank, autore negli

anni ’50, del mitico libro “Americans”, appare in mostra seguendo, col suo stile

anticonvenzionale, la giornata dei minatori gallesi. Nel complesso, appaiono piĆ¹

immagini in bianco e nero che a colori, piĆ¹ di paesaggi industriali precedenti la

rivoluzione digitale, con rappresentazioni drammatiche di fabbriche immerse nel

fumo e nelle fiamme, che dei nuovi ambiti lavorativi ipertecnologici (che comunque

non mancano del tutto), piĆ¹ lavoratori col volto annerito e le mani sporche che in

camice e tuta isolante, piĆ¹ ‘900 che 2000. Credo che gli ottimi curatori del Mast

dovrebbero appuntare la loro attenzione sul lavoro presente in Occidente e su come

stia cambiando rispetto a quello incentrato sulle grandi fabbriche, che invece

sussistono e andrebbero maggiormente documentate in Oriente, mentre anche

l’Africa si sta trasformando e sta cercando le strade per entrare nel ciclo economico

mondiale. Segnalo due ottimi lavori filmati di Yuri Ancarani, che mostrano come le

mani possano ancora essere usate, come in passato, in una cava di marmo per

dirigere il lavorio delle scavatrici o diventare prolungamenti meccanici di quelle

umane per eseguire delicati interventi chirurgici. Per un appassionato di fotografia si

possono seguire le proprie preferenze tra grandi artefici, da Tina Modotti a Salgado,

da Ghirri a Guidi, da Brandt a Sudek, da El Lissitzky a Sander, da Mulas a Jodice, a

tanti altri. Magari sorridendo sulla foto di Doisneau, intitolata “PaternitĆ 

metallurgica”, che mostra un omone che, in mezzo alle macchine della fabbrica, dĆ  il

biberon al suo bambino. Indimenticabile, nella sua drammaticitĆ , la foto del

lavoratore fulminato sui fili elettrici in Messico. Splendidi i chiaroscuri di ambienti

industriali di Don McCullin e Bill Brandt. Tragica l’icona della madre giapponese che

lava il figlio vittima dell’inquinamento da mercurio causato da una fabbrica.

SASSI SAURO



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