PIER PAOLO PASOLINI: CINEMA E ARTE FIGURATIVA

PIER PAOLO PASOLINI: CINEMA E ARTE FIGURATIVA





In occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini (5 marzo 1922), 
la sua città natale, Bologna, gli dedica un vasto programma di manifestazioni. Il
perno centrale è la mostra intitolata “Folgorazioni figurative”, organizzata da Cineteca
Bologna e Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini, per la cura del Presidente di
quest’ultimo, Roberto Chiesi e dello storico della letteratura Marco Antonio
Bazzocchi, che al poeta ha dedicato grande attenzione e diversi studi. Il tema del
rapporto tra il cinema di Pasolini e l’arte figurativa è peculiarmente bolognese
perché nell’Università della città avvenne l’incontro dello studente, innamorato
della poesia, col giovane docente Roberto Longhi, che sarà considerato il maggior
storico italiano dell’arte del ‘900, che gli rivelò la bellezza di questa disciplina, la sua
grande capacità di fornire supporti linguistici per rappresentare il reale. Longhi
usava uno strumento didattico allora inusuale, la proiezione di diapositive delle
opere, per poi sviluppare, sulle immagini, le sue lezioni, che riguardavano in
particolare l’arte del ‘400 italiano, secolo in cui, a seguito della precedente
rivoluzione giottesca, Masaccio, Piero della Francesca, Brunelleschi ponevano al
centro della rappresentazione l’uomo, le sue proporzioni, la sua presenza fisica.
Pasolini se ne ricordò quando, a seguito delle sue travagliate vicende biografiche,
giunse a Roma e, nel 1961, realizzò il primo film, “Accattone”. Lui non aveva una
grande conoscenza della tecnica cinematografica e, come testimoniò Bernardo
Bertolucci, che gli fece da assistente, si pose davanti a questa impresa come un
neofita, che faceva ricorso agli strumenti culturali che gli erano propri, per
raccontare una storia ambientata nei sobborghi degradati della città. Si crea così il
contrasto tra questo mondo e i personaggi, allora si diceva sottoproletari, che lo
vivevano e i forti riferimenti all’arte quattrocentesca, nei primi piani, nella luce
accesa dell’estate romana. E nella musica di Bach che ne accompagna le tristi
vicende. Nel secondo film, “Mamma Roma”, ancora ambientato in borgata, si
mescolano suggestioni da Masaccio, Antonello, Caravaggio, ma anche un rimando
profano a un’ultima cena che ha tanti esempi nella pittura rinascimentale, senza
dimenticare il film “Viridiana” di Bunuel. La scena straziante della morte del giovane
figlio della protagonista, legato a un letto di contenzione rimanda, checché ne dica
lo stesso Pasolini, al “Cristo morto” di Mantegna (se vogliamo, dato che spesso a
Pasolini si attribuiscono doti profetiche, non si possono dimenticare le immagini di
Francesco Mastrogiovanni, ripreso dalle telecamere nella sua morte, legato per 87
ore al letto durante un Tso). Il rapporto con la pittura si allarga nel terzo film breve,
“La ricotta”, dove Pasolini utilizza in modo esplicito due grandi pale di artisti
manieristi, la ”Deposizione” di Rosso Fiorentino, del museo di Volterra, e quella di
Pontormo, della chiesa fiorentina di Santa Felicita (c’è chi la definisce la più bella
pittura di sempre). In questo caso Pasolini usa le opere come letterale citazione,
riallestendole a colori (in un film per il resto in bianco e nero) come in un teatro. Tra
parentesi, cita anche una propria poesia, recitata da Orson Welles al giornalista
ignorante: “Io sono una forza del passato…”. La scoperta del manierismo non deriva
tanto da Longhi quanto da un altro importante storico dell’arte, Giuliano Briganti,
mentre nel successivo “Il Vangelo secondo Matteo” ritornano i riferimenti a Giotto,
Piero della Francesca, di cui nella prima scena del film, l’Annunciazione, si evoca la
“Madonna del Parto” di Monterchi e nei copricapi dei Farisei gli affreschi della
“Leggenda della vera Croce” di Arezzo, mentre il Cristo, interpretato dallo studente
e militante di sinistra spagnolo Enrique Irazoqui, ricorda le immagini di El Greco e,
forse, la scena delle Marie piangenti nella Crocefissione (tra cui la madre di Pasolini)
può rimandare al bolognese “Compianto sul Cristo morto” di Niccolò dell’Arca. Con
“Uccellacci e uccellini” il cinema di Pasolini si allontana sempre più dal realismo,
diventa metaforico. Il film nel film dei due fraticelli (Totò e Ninetto Davoli) che
cercano di pacificare gli uccelli richiama iconograficamente i dipinti di Giotto, i due
personaggi che camminano ripresi di spalle ricordano il finale di “Tempi moderni” di
Chaplin. Il citazionismo ritorna nel film breve “Che cosa sono le nuvole”, con
manifesti di Velazquez e un turbante alla Van Eyck. I film del mito, “Edipo re”, del
1967, e “Medea”, del 1969, rappresentano un allontanamento dalla tradizione
figurativa italiana, per allargarsi a un arcaismo immaginifico, nei costumi di Danilo
Donati e di Piero Tosi, guardando anche alla tradizione figurativa giapponese,
mentre per le musiche abbandona definitivamente il repertorio classico per inserire
brani di musica popolare, anche da altre nazioni (altra passione di Pasolini, che la
condivideva con Elsa Morante). Ritengo “Medea” il più bel film di Pasolini dal punto
di vista visivo. Gli abiti sono veramente opere d’arte in sé, autentiche sculture. Nel
film del ’68, “Teorema”, Pasolini decide di affrontare quel soggetto che aveva
sempre rifiutato perché riteneva che l’odio che gli portava gli impedisse di
rappresentarlo: la borghesia. Narra di un personaggio, angelo o demone, che arriva
nella villa di un ricco industriale. Soddisfa il desiderio d’amore dei membri della
famiglia e anche della serva, ma, quando se ne va, tutti si perdono, padre, madre,
figlia, figlio, rivelando lati di sé fino allora segreti (omosessualità, frustrazione
sessuale, messa in crisi del ruolo di potere). Il figlio, col quale l’ospite aveva guardato
un volume sulla pittura di Francis Bacon e le sue figure di disperazione urlante,
decide di dedicarsi all’arte, ma sente la propria inadeguatezza, l’incapacità di dare
un senso alle opere che realizza, con tecniche che vanno dall’Action Panting a certi
lavori di Andy Warhol (le “Ossidazioni”, ottenute urinando sul quadro). Nel
tratteggiare i riti e la personalità di questo giovane artista Pasolini sembra dare un
giudizio del tutto negativo sull’arte contemporanea che si esprime al di fuori della
tradizione (mentre ammira Guttuso e il suo conterraneo Zigaina). Il grido finale del
padre (Massimo Girotti) nudo sulle pendici dell’Etna è ancora una volta un richiamo
a Bacon. Anche in “Porcile” (1969), ambientato nella Germania che ancora non ha
elaborato il passato nazista, ritornano suggestioni figurative in particolare dalla
pittura corrosiva di Georg Grosz. Nella cosiddetta “trilogia della vita”, “Il
Decameron”, “I Racconti di Canterbury”, “Il fiore della Mille e una notte”, Pasolini
utilizza un repertorio figurativo che affonda nella storia dell’arte occidentale per i
primi due film (Giotto, Bosch, Pieter Bruegel il Vecchio), apparendo addirittura, nel
Decameron, nel ruolo di un pittore giottesco chiamato ad affrescare una chiesa
(abbigliato come il dio fabbro Vulcano nel quadro di Velazquez); nel terzo invece
torna a un immaginario che richiama un oriente favoloso, con escursioni anche in
Nepal, alla ricerca ancora di luoghi non contaminati dalla cultura occidentale.
Successivamente, rinnegò questi tre film, affermando che la rappresentazione dei
corpi e dei sessi, che aveva cercato come atto supremo di ribellione contro
l’omologazione culturale che aveva cancellato il popolo, era stata in realtà usata per,
in nome di una falsa tolleranza, allargare ancora di più quella coercizione al
consumo che produceva ormai individui alienati, schiavi di un potere che si era
impossessato definitivamente di corpi e menti. La disperazione di Pasolini, l’odio
verso questo potere, lo portò a realizzare il suo ultimo film “Salò, o le centoventi
giornate di Sodoma”, opera talmente estrema nella sua violenza, nella
rappresentazione di un potere che ormai dominava, corrompeva, distruggeva i corpi
dei giovani di cui si impossessava, da renderne quasi intollerabile la visione. D’altro
canto Pasolini appare sempre più padrone della tecnica cinematografica, in
particolare nell’uso della luce, nella simmetria delle scene, come se un ordine
assurdo governasse quella che lui definiva l’anarchia del potere. Gli interni della villa
in cui avvengono le sevizie sono arredati in stile anni’30, con numerosi quadri alle
pareti che vanno dal Futurismo al Novecento, fino a Léger. Salò uscì nel 1975, dopo
la morte del poeta. Poco tempo prima Pasolini aveva chiesto al fotografo Dino
Pedriali di riprenderlo nella abitazione che aveva realizzato a Chia, nel viterbese,
presso una antica torre. Aveva chiesto di essere ripreso come da un angolo
nascosto, escludendo qualunque posa, e diversi scatti lo mostrano inginocchiato sul
pavimento a disegnare, in molte piccole varianti, che ricordano un po’ il lavoro di
Andy Warhol, il profilo del suo antico maestro d’arte Roberto Longhi. Ancora una
volta un ritorno, come nel finale dell’Edipo Re, alla città di Bologna, nella cui Villa
Aldini aveva girato scene di Salò e in cui, sempre in quell’ultimo anno di vita, aveva
partecipato alla performance del suo amico artista Fabio Mauri, che aveva
proiettato sul suo corpo, nella Galleria d’Arte Moderna, il “Vangelo secondo
Matteo”. Il titolo della performance era “Intellettuale” e appare del tutto
appropriato per un artista che aveva messo il corpo al centro della sua opera e che ci
lascerà con l’immagine del suo corpo devastato ma ancora sempre vivo e presente.
La mostra termina con una frase dal soggetto di quello che sarebbe stato il suo
nuovo film: “Non esiste la fine”.

SAURO SASSI

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