ANDREAS GURSKY A BOLOGNA: DEL RAPPORTO TRA IMMAGINE E REALTA’ NEL MONDO GLOBALE

 ANDREAS GURSKY A BOLOGNA: 

DEL RAPPORTO TRA IMMAGINE E REALTA’ NEL MONDO GLOBALE




Cento anni fa, nel 1923, nasce a Bologna l’azienda GD, inizialmente dedita alla

produzione di motociclette. Nel corso della sua evoluzione passa al settore del

packaging, realizzando macchine automatiche per l’impacchettamento di merci di

tutti i tipi, in particolare delle sigarette. Acquisisce altre aziende, diversificando la

produzione e giungendo alla costituzione di una holding, Coesia, controllata dalla

signora Isabella Seragnoli, la quale ha sempre sostenuto un modello di impresa che

fosse inserita nel tessuto sociale in cui opera, che avesse una grande attenzione al

benessere dei propri lavoratori, attraverso la realizzazione di un avanzato welfare

aziendale, che fornisce l’asilo nido e, recentemente, anche un accordo sindacale che

concede ai 1817 dipendenti (settore metalmeccanico) ulteriori 12 ore di permesso

per la cura della famiglia allargata, comprese 4 ore per gli animali. L’azienda madre

ha conservato la propria sede nello storico quartiere operaio di Santa Viola, nella

periferia bolognese. Sempre nell’ottica di mantenere un rapporto con il territorio, a

partire dagli abitanti di questo luogo che non ha particolari attrattive, dieci anni fa, a

ridosso dell’area dello stabilimento, è sorto il MAST (Manifattura di Arti, Scienza,

Tecnologia). Si tratta di un edificio nuovo, progettato dallo studio Labics di Roma,

all’interno del quale si trova uno spazio espositivo, laboratori educativi, un bar, un

auditorium per incontri e proiezioni di film, allestimenti interattivi, realizzati anche

con la collaborazione di Studio Azzurro, dedicati alla cultura di impresa. Lo spazio,

sia all’interno che all’esterno, presenta opere di importanti artisti contemporanei:

Anish Kapoor, Robert Indiana, Mark di Suvero, Olafur Eliasson, Julian Opie. Le

mostre, che si susseguono tutto l’anno a ingresso gratuito, sviluppano il tema della

rappresentazione del lavoro e dell’impresa attraverso le immagini, in particolare la

fotografia. Attualmente è in corso una monografica dedicata ad Andreas Gurski, che

ha saputo, nel corso di una lunga carriera (è nato a Lipsia nel 1955) portare la

fotografia nel campo delle arti visive, sottraendola dall’idea di essere una forma

espressiva riservata a una platea di amatori della tecnica o di chi ne ammiri solo la

grande capacità di documentare i fatti della storia attraverso i reportages. Gursky

frequentò l’Accademia di Belle Arti di Dusseldorf, dove i coniugi Bernd e Hilla Becher

avevano istituito un corso di fotografia, in cui si formarono alcuni dei più famosi

fotografi tedeschi in campo internazionale. Oltre a lui, Thomas Ruff, Thomas Struth,

Candida Hofer, Elger Hesser. I Becher, a loro volta, furono i primi a portare le loro

foto fuori dai circuiti degli amatori e a farle entrare nelle grandi mostre d’arte

contemporanea. Il loro lavoro si fondava sulla documentazione di edifici di

archeologia industriale, stabilimenti metallurgici, torri dell’acqua, gasometri ma

anche le tipiche case nordiche a graticci. Gli elementi fondanti delle loro foto erano

la serialità (le immagini venivano esposte a gruppi, mai singolarmente), l’oggettività

(visione frontale, distanza); una luce diffusa, in assenza del sole diretto, per 

eliminare le ombre e ogni possibile drammatizzazione; un punto di ripresa

leggermente sopraelevato; l’assenza della presenza umana. Le fabbriche erano

inattive, senza fumi o segni di un lavoro in corso, per esaltarne le caratteristiche

architettoniche e scultoree. Il lavoro dei Becher era stato premiato alla Biennale

Arte di Venezia e influenzò fortemente gli allievi, anche se poi ognuno di essi prese

un percorso fortemente personale. Rimase soprattutto l’oggettività, la prassi di

evitare un tipo di immagine emotiva, la convinzione che la fotografia derivasse da un

pensiero analitico e che dietro ogni immagine ci fosse un’elaborazione concettuale,

non solo un immediato desiderio di rappresentazione del reale. La mostra di Gursky

al Mast, intitolata “Visual Spaces of Today” è stata allestita personalmente

dall’artista, assieme ad Urs Stahel, e rappresenta un percorso nella sua opera,

prestando attenzione ai luoghi della produzione, del consumo, dello scambio di

merci, dei mercati finanziari, in linea con la politica espositiva del museo. Gursky non

ama parlare del suo lavoro, attribuire significati particolari alle immagini, ritenendo

debba essere lo spettatore, col proprio sguardo e la propria mente, a interpretarle e

fornirle di senso. Così anche i titoli indicano solamente i luoghi in cui è avvenuta la

ripresa, ed egli ha voluto porre a inizio del percorso una foto che considera molto

importante nella ricerca della sua modalità espressiva. Si intitola “Salerno”, è del

1990, e presenta diversi elementi che caratterizzeranno il suo lavoro. In primo luogo

il grande formato, con una visione che dal porto si estende alla città e alla collina

sovrastante. La foto è presa da una posizione leggermente rialzata, come facevano i

Becher; altro carattere tipico l’accumulo di cose, termine che per Gursky sembra

accomunare oggetti, prodotti, animali, esseri umani, che costituiscono una

moltitudine indistinta. Altri caratteri ricorrenti il colore, la ricerca della perfezione

formale, a partire dalla messa a fuoco che tende ad annullare le distanze e a non

porre nulla in secondo piano. Vediamo il porto, auto, ordinatamente parcheggiate,

container che, pur essendo enormi, sembrano piccoli pezzi di Lego. In alto un piccolo

edificio diroccato, che richiama il passato, la storia; dietro, la città, che si sviluppa

sotto le colline e sembra inglobata dal porto; in primo piano una strada di transito,

vuota, con rifiuti ai bordi, uno di quei siti marginali, privi di storia e di senso, creati

dalla modernità e che il recentemente scomparso Marc Augè definiva “non luoghi”.

Questa immagine, che è quindi molto complessa, e ha diversi piani di lettura, è stata

ripresa con un apparecchio analogico. In seguito, Gursky sarà tra e primi a servirsi

del digitale, arrivando quindi a manipolare le immagini per aumentarne il senso

estetico, anche per farci capire che la fotografia non rappresenta comunque la

realtà e l’immagine, come sosteneva Baudrillard, ha ormai sostituito il reale. Oltre a

un discorso estetico (troviamo riferimenti ad artisti come Caravaggio, Kosuth, Jeff

Wall, Gunther Forg, Barbara Kruger, Jenny Holzer, Gerard Richter, Christian

Boltanski, la pittura astratta americana, da Rothko a Newman e Morris Louis) le

manipolazioni di Gursky hanno anche un connotato ironico, come quando,

incaricato di ritrarre uno dei più importanti progettisti della Apple, ha sostituito la

sua immagine (“non mi interessa l’individuo ma la specie umana e il suo ambiente”)

con quella di alcuni dei dispositivi da lui realizzati, inserendo anche in basso, nella

foto, due mele per ricordare l’azienda per cui lavora. Le sue immagini sono

solitamente composizioni di diversi scatti, in cui spesso crea false prospettive, che

tendono ad appiattire e a rendere quasi verticale la visione, per amplificare il senso

di vicinanza soffocante, come per i lavoratori di una fabbrica vietnamita che

realizzano cestini e altri oggetti per l’Ikea. Paradossale pensare questi lavoratori che

producono, anche servendosi di tecniche manuali tradizionali, oggetti progettati in

Scandinavia e che entreranno nei mercati occidentali. Un senso di soffocamento,

creato dalla manipolazione digitale, prende anche vedendo una grande folla

all’interno di una discoteca a Francoforte, che però deriva dall’immagine di un rave

party in Spagna, o la borsa di Tokio in cui, con un tempo di esposizione lungo, cerca

di rendere il senso della dinamicità della scena e in qualche modo vincere anche

quello che Baudrillard definiva il silenzio dell’immagine fotografica. Sempre il tema

dell’affollamento ritorna in una delle prime foto, di un allevamento di polli, e in una

vista dall’alto di un allevamento di bovini, dove gli animali sono divisi in diversi

recinti e colpisce il terreno, un misto di sabbia e fango completamente privo d’erba,

che evidentemente non rientra, come dovrebbe essere, nell’alimentazione di questi

animali. Ancora un incredibile affollamento di cose in un magazzino Amazon, dove

gli oggetti sono disposti in un ordine apparentemente caotico ma in realtà creato

dalla logica di un algoritmo. Così come una delle immagini più famose, un dittico che

riprende uno di quei grandi magazzini che vendono tutto a una cifra fissa (nel caso

99 centesimi) evidenziando l’omologazione e la perdita di valore delle cose e dove

alcuni visitatori si aggirano come fantasmi e sembrano anch’essi far parte delle

merci. In questo caso l’ironia deriva dalle scritte, come “aperto 24 ore su 24 nove

giorni alla settimana”, un tempo assurdo che scandisce anche le vite dei lavoratori e

dei clienti. A queste immagini che riflettono la modernità della condizione

capitalistica se ne contrappone una scattata nello spogliatoio di una miniera di

carbone in Germania: si vedono gli abiti dei minatori, che vengono fissati con catene

metalliche e portati in alto, quasi a ricordare una installazione di Christian Boltanski.

Una foto bellissima che riflette l’interesse di Gursky per le griglie e gli apparati di

ricerca scientifica è stata ripresa in un laboratorio sotterraneo giapponese che ospita

un rilevatore di neutrini, formato da svariate celle sovrapposte che abitualmente

sono sommerse dall’acqua. Gursky ha approfittato dello svuotamento per

manutenzione per riprendere un’immagine fantastica, enorme, di queste celle

illuminate dal giallo delle lampade al sodio mentre al fondo, dove ancora persiste

l’acqua, si muove una barca dei manutentori che appare minuscola, schiacciata dalla

vastità dell’impianto. In alcune foto prevale l’interesse estetico di Gursky, che crea

immagini bellissime e quasi astratte di una collina francese rivestita da impianti

fotovoltaici e di una pista per le corse di formula 1 in Bahrein, che, con la

manipolazione digitale e per il fatto che ogni anno la pista deve essere ridisegnata a

causa del calore, diventa una specie di nastro di Moebius, un’immagine tanto bella

quanto inquietante. Un’altra delle foto più belle è quella di un pit stop durante una

corsa di formula 1. Anche in questo caso il fotografo ha usato la tecnica digitale per

rappresentare, su un grande pannello orizzontale a una distanza innaturalmente

ravvicinata, il momento di cambio delle gomme delle squadre Ferrari e Mercedes.

L’immagine che ne risulta gioca sulla combinazione dei colori delle due squadre,

rosso e bianco, che emergono da un fondo nero, a creare un risultato di indubbia

bellezza. La foto che più può apparirci “bella” perché solletica il nostro fondo

romantico, è quella di una salina in Spagna, al tramonto. Ancora una volta troviamo

una suddivisione a griglie, il rosso dell’acqua, il nero di colline ai lati. Si vede la scia di

un aereo in decollo, forse vera, forse inserita dal fotografo, mentre è sicuramente

sua quella che attraversa orizzontalmente in alto l’immagine, andando ad

equilibrare quella nera in basso che delimita una vasca. Se ci avviciniamo e

osserviamo attentamente le vasche vedremo anche una fila di fenicotteri e ai lati,

nella parte scura a ridosso della collina che costeggia la salina, i fari e le sagome di

auto. Ancora un gioco tra realtà e creazione artistica. Nel campo del gioco con

l’astrazione, con riferimenti a pittori americani come Rothko e Newman, ci viene

anche presentata quella che è stata, nel 2011, la foto più costosa del mondo,

seppure in un formato più ridotto. Si intitola Rhein II e fu battuta a 4,3 milioni di

dollari. E’ un’immagine del fiume Reno scattata in un parco mentre Gursky faceva

jogging, dove sono state eliminate le persone e gli edifici sull’altra riva. Ne risulta

una composizione apparentemente astratta, come tante fasce orizzontali di diversi

colori. A questo tipo di visione estetica rimanda anche un’altra foto bellissima che,

da lontano sembra ancora un’immagine astratta di strisce colorate e che, da vicino,

appare come la vista di un campo di tulipani scattata da un drone. Le circa quaranta

foto esposte al Mast ci fanno fare un percorso in un mondo che cambia

incessantemente, che si è chiamato post capitalista, globalizzato dove, per tornare a

Baudrillard, l’immagine ha ucciso la realtà, le cose ci sommergono, gli esseri umani

sono privati di individualità. Gursky ce lo presenta con grande eleganza ma che non

può non nascondere una sottile angoscia. L’artista ha voluto terminare la mostra

con una foto più piccola, priva di cose e persone, priva di griglie e recinti. E’ del 1993

e si intitola “Ghiacciaio dell’Aletsch”. Al solito non ci spiega la scelta, però viene da

pensare se questo ghiacciaio oggi esista ancora e se non ci voglia far riflettere sulla

sempre più drammatica crisi ambientale.

Sauro Sassi




ANDREAS GURSKY - VISUAL SPACES OF TODAY

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