'LA ZONA D’INTERESSE' UN FILM CHE CI PARLA DEGLI ORRORI DEL PASSATO E FORSE ANCHE DEL PRESENTE

 LA ZONA D’INTERESSE

UN FILM CHE CI PARLA DEGLI ORRORI DEL PASSATO E

 FORSE ANCHE DEL PRESENTE



Secondo me “La zona d’interesse” è uno dei migliori film della stagione. Al di là del

contenuto, credo che il cinema debba essere anzitutto una questione di linguaggio,

e i grandi registi sono quelli che danno forma al proprio discorso con uno stile forte,

personale, riconoscibile. Io non ho visto i film precedenti di Jonathan Glazer (tre

lungometraggi, due cortometraggi, diversi videoclip) ma questo è strutturato in

modo tale da supportare splendidamente il discorso che intende fare. Che forse

sarebbe banale definire con la solita frase: “La banalità del male”. Perché questa

proposizione, che è il titolo del famoso libro di Hannah Arendt sul processo

Eichmann, rischia di essere riduttiva, può indurci a pensare che l’atteggiamento di

assurda inconsapevolezza, di complicità, di immoralità che un popolo con una delle

maggiori tradizioni artistiche e culturali ha posto in essere nei confronti del nazismo

e della Shoah sia un punto di non ritorno, qualcosa di irripetibile, storicamente

determinato. Invece credo che quello sia stato un inizio, che la cappa

dell’indifferenza di fronte ai crimini contro l’umanità si stenda ormai sull’intero

globo e ci rivesta tutti, a maggior ragione perché noi non possiamo, come fece il

popolo tedesco, dire che non sappiamo, che non abbiamo visto. E non penso solo

alla Palestina, ma ai Balcani, al Ruanda, all’Indonesia (un milione di persone

ammazzate perché comuniste, come racconta il terribile documentario “The act of

killing”), alle purghe staliniane, e così via. Quindi credo che il film di Glazer parli

anche del nostro presente e che questo lo renda ancora più disturbante. Il film

racconta di Rudolf Hoss, comandante del lager di Auschwitz e della sua famiglia,

composta dalla moglie e cinque figli. Vivono in una villetta divisa dal campo, che non

si vede mai, da un muro con un filo spinato. Attorno alla casa c’è un giardino con

fiori, che la moglie cura amorevolmente, una piscina. Attraverso un prato si

raggiunge il fiume, dove si può fare il bagno e prendere il sole. Nella casa la signora

riceve parenti, amiche, che sono le mogli di altri ufficiali del campo, con cui prendere

il tè, chiacchierare, esibire vestiti e altri oggetti sottratti ai prigionieri. Il campo e

queste aree di abitazione sono definiti “zona d’interesse”, una specie di spazio

extraterritoriale, riservato. Anche il marito è presente, spesso lavora da lì, in

borghese. I figli giocano. Le conversazioni tra marito e moglie sono piatte, come se

non avessero passioni. La villa è il regno della moglie, la bravissima attrice tedesca

Sandra Huller, e, in realtà, fotografata con luce naturale, appare abbastanza

modesta, così come il giardino, anche perché non è certamente una zona


particolarmente attraente, anche climaticamente. Sembra però che per la donna

rappresenti il luogo ideale dove vivere per sempre, crescere i figli. Non importa se

l’aria puzza dei corpi bruciati nei forni, che il marito fa lavorare a ciclo continuo, se si

odano continuamente rumori di cani, mezzi militari, urla di guardiani e carcerati.

Non importa se può capitare, facendo il bagno nel fiume, di trovarsi addosso i resti

dei corpi bruciati. Nessuno “sente”. Non si parla nemmeno della guerra, del futuro,

come se la famiglia fosse immersa in un eterno presente, che non prevede sviluppi,

e quelle esistenze mediocri, burocratiche fossero paradisiache, eterne. La narrazione

si svolge su due piani, uno visivo, ciò che appare nella cornice dello schermo, e uno

sonoro, ciò che accade fuori, che non si vede, un basso continuo di dolore. Mentre

dentro la macchina da presa riprende la meschinità della famiglia Hoss e dei suoi

squallidi riti quotidiani, il sonoro (e voglio vedere se non vincerà l’Oscar) ci ricorda

cos’era un campo di concentramento, senza bisogno di farcelo vedere perché quelle

immagini sono sedimentate nella nostra memoria, non solo attraverso tanto cinema

di finzione ma coi filmati che anche grandi registi, come George Stevens, o le foto,

tra le altre, di Lee Miller ci hanno impresso negli occhi e nella coscienza. Se la

narrazione si scinde tra la “normalità” della vita di Hoss e della sua famiglia e l’orrore

suggerito dal sonoro (e forse si sarebbe dovuto sperimentare qualcosa tipo

l’odorama di John Waters, per far sentire anche in sala l’odore della morte), il regista

sembra voler spezzare la catena dell’orrore attraverso immagini, ottenute con una

camera termica, di una ragazzina che seppellisce cibo per i prigionieri: dall’oscuro

emerge una luce di umanità. Poi sopravviene un evento a turbare la scena: Hoss si è

dimostrato troppo bravo come funzionario della morte, viene promosso e trasferito.

La moglie rifiuta di seguirlo, non vuole abbandonare il suo paradiso. Hoss continua la

sua carriera ma, in qualche modo, il suo corpo comincia a rifiutare l’orrore

programmato dalla sua mente: sta male, vomita. Non è un rigurgito di coscienza, è

qualcosa di puramente fisico. Lui tornerà ad Auschwitz, dalla lieta famiglia, a

organizzare lo sterminio degli ebrei ungheresi. Il film si apre con una specie di

prologo musicale e si chiude con una musica, a schermo vuoto, di Mica Levi, che

sembra voler sintetizzare l’orrore del campo, tutto ciò che non abbiamo visto ma

immaginato, con suoni distorti, disturbanti, che ci fanno uscire con un senso di

turbamento. Il film possiede uno humour sarcastico che, unito a una forte struttura

formale, a uno splendido uso della musica e del sonoro, non possono non rimandare

a Kubrick, maestro riconosciuto di Frenzen. La glacialità della narrazione, e anche il

fatto che l’attore che interpreta Hoss aveva anche interpretato “Il nastro bianco”,

rimanda al regista austriaco Michael Haneke. Ricordo che quel film, ambientato agli

albori della prima guerra mondiale, parla di alcuni ragazzini di un villaggio che

pongono in essere comportamenti strani, minacciosi, che in qualche modo

prefigurano le aberrazioni del nazismo. Resto dell’idea che il film di Frenzen parli

della Shoah ma che il suo discorso sia ancor più universale, riguardi l’orrore e la sua

rappresentazione, l’indifferenza, anche oggi che gli schermi televisivi ce lo riversano


addosso quotidianamente. Hoss e la moglie non vedono, sono talmente assurdi da

apparire incomprensibili. Ma forse anche noi lo siamo, in un universo sempre più

spezzato, dove lo spettacolo della sofferenza si mescola a manifestazioni di una

idiozia che trascende ogni immaginazione (vedi sfilate di moda, festival di Sanremo).

Si può forse paragonare questo film, dove la visione è negata, a quello dove invece

l’orrore ci viene mostrato in un modo insostenibile, il “Salò” di Pasolini. Nella scena

finale del girone del sangue i quattro mostri torturano e uccidono i ragazzini e quelli

che non agiscono osservano con un binocolo, attraverso una finestra. Come fosse

uno schermo. L’orrore si può immaginare oppure, come moralisticamente fa

Pasolini, essere imposto davanti ai nostri occhi. Resta una condizione di dolore

impotente, come anche dopo la visione di “La zona d’interesse”.

Sauro Sassi

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